Il valore civile di matrimonio e famiglia - Il vero nodo: il divorzio
«giusto» di Francesco D'Agostino, 3 novembre 2012, http://www.avvenire.it
Non sapevo dell’esistenza di una
"Lega italiana per il divorzio breve". L’ho scoperto quando sono
venuto a sapere che questa Lega ha promosso uno sciopero della fame per
protestare contro il fatto che il disegno di legge, presentato a suo tempo in
Parlamento per abbreviare i tempi del divorzio, non è stato ancora, come si
suol dire, "calendarizzato" e corre quindi seriamente il rischio di
non passare al vaglio della Camera in questi ultimi mesi di legislatura. Non mi
interessa, in questo contesto, discutere le ragioni che vengono avanzate a
giustificazione di questo disegno di legge. Mi dà piuttosto da pensare il fatto
che, se è stata fondata una "Lega per il divorzio breve", nessuno
abbia pensato a fondare una Lega per il "divorzio giusto". Si dirà:
ma chi avrebbe dovuto pensarci? Per i cattolici il divorzio non è mai giusto;
per i non cattolici il divorzio non è né giusto né ingiusto: è una facoltà che
la legge riconosce, congiuntamente o disgiuntamente, a qualsiasi coppia
coniugale. Chi auspica un "divorzio breve" non lo pensa come una
questione di giustizia, ma come una questione di opportunità: si tratterebbe di
abbattere le spese legali a carico dei divorziandi, di sciogliere al più presto
la comunione dei beni eventualmente instaurata tra loro, di far riacquistare
nel più breve tempo possibile a chi chieda il divorzio uno stato anagrafico,
che lo legittimi a contrarre un nuovo matrimonio (in ossequio alla vecchia
facezia, secondo la quale un secondo matrimonio rappresenterebbe "la
vittoria della speranza sull’esperienza"). Messe così, le cose possono
apparire tutto sommato "ragionevoli". Appaiono tali, però, solo per
chi abbia recepito come indiscutibile un principio che è invece tutt’altro che
"ragionevole" e cioè che la possibilità del divorzio debba essere
riconosciuta appunto come una facoltà o addirittura come un vero e proprio
"diritto" di tutte le persone coniugate: un diritto il cui esercizio
potrebbe essere anche ritenuto conturbante, aspro, lacerante; ciò non di meno
un vero e proprio diritto. Stanno davvero così le cose? La risposta è no.
Ancora una volta si tratta di un "no", che non è basato su ragioni
confessionali (come pensano erroneamente molti "laici", che liquidano
la questione dicendo che nessuno obbliga "i cattolici" a divorziare,
se credono all’ indissolubilità del vincolo), ma su ragioni antropologiche e
sociali. Tutto dipende ovviamente da una corretta comprensione di cosa sia e di
cosa non sia il matrimonio. Il matrimonio non è un fatto privato, è un fatto
pubblico; non è una tecnica per gratificare o legittimare la passione amorosa
di una coppia, è un’ istituzione sociale, finalizzata alla costruzione delle
famiglie e volta a garantire i rapporti intergenerazionali. E lo scioglimento
del matrimonio non consiste semplicemente nella presa d’atto sociale della
crisi di una coppia intenzionata a separarsi e di sperimentare nuove unioni
coniugali; è piuttosto la presa d’atto di una gravissima frattura di quell’ordine
sociale familiare che governa e umanizza (la parola non sembri esagerata) le
vite private dei cittadini. Una frattura che storicamente a volte si rivela
talmente pericolosa, da rendere indispensabile da parte dei governanti
l’attivazione di politiche sociali a difesa del matrimonio e della famiglia (e
Dio solo sa quanto oggi si senta il bisogno di tali politiche).
Non è questo né il tempo né il
luogo per riaprire la questione etica, politica e giuridica della
legalizzazione del divorzio in Italia, che si è attuata in un modo
particolarmente goffo (la nostra legge non usa mai la parola «divorzio», ma l’
espressione «cessazione degli effetti civili del matrimonio»!). La questione è
quella della progressiva banalizzazione del divorzio, che comporta inevitabilmente
un’ulteriore banalizzazione dei vincoli coniugali. Che questi vincoli siano in
sofferenza in tutti i maggiori Paesi occidentali tutti sono portati a
riconoscerlo; ben pochi, però, hanno l’onestà intellettuale di riconoscere che
la crisi antropologica che caratterizza queste stesse società va, almeno in
gran parte, ricondotta proprio a tale sofferenza e al conseguente inevitabile
alterarsi dei vincoli coniugali e intergenerazionali. Non conta quanto il
divorzio possa essere "lungo" o "breve": dobbiamo tornare a
interrogarci su quanto esso possa essere "giusto". Questo è il cuore
della questione.
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