Avvenire.it, 9 febbraio 2011 - LA STORIA - «Un “vegetale”? No, il mio Davide ascolta e capisce tutto» di Paolo Guiducci
«Staccare la spina? Si può staccare a un elettrodomestico, non a una vita». Amedea Parma va dritta al cuore della questione. Potrebbe fare altrimenti una madre che da oltre dieci anni accudisce il figlio in stato di incoscienza? Prima lo straziante caso di Eluana, poi il silenzio imposto dal programma di Fazio e Saviano, ora la Giornata degli stati vegetativi. «Non voglio giudicare nessuno ma allo stesso tempo non posso tacere: – ammette la signora Parma, 62 anni, riminese –. Don Oreste Benzi mi inciterebbe a far conoscere la mia esperienza. Se mi permetto di parlare è perché anche io ho vissuto le stesse sofferenze del padre di Eluana. Davide nel suo silenzio è vivo ed è la mia forza».
Il giorno della festa del papà è una ricorrenza che in casa Parma non possono più cancellare dal calendario. È il 2000. Davide ha 27 anni, all’ora di cena il suo posto a tavola è vuoto. Alle 20 suonano alla porta ma al posto del ragazzo spuntano le divise dei carabinieri. «Davide è in ospedale, in rianimazione, le sue condizioni sono molto gravi». Ad attendere Amedea e il marito in ospedale, c’è la diagnosi dei medici, che suona come una sentenza senza appello. Davide è in pericolo di vita. Qualora riuscisse a sopravvivere, lo attenderebbe lo stato vegetativo, la stessa diagnosi di Eluana. Dopo 20 giorni, Davide dev’essere trasferito in una struttura per la riabilitazione. Intubato, si nutre attraverso un sondino naso-gastrico, soffre di gravi broncopolmoniti con febbre altissima. Il quadro clinico è disperato. Mamma, papà e il fratello lo assistono continuamente: «Gli facevamo sentire la nostra presenza». Dopo quattro mesi viene dimesso, la famiglia è indecisa. Chiede un consulto a un medico di Ferrara che sentenzia: non è recuperabile. Unica soluzione: il ricovero in una Residenza Sanitaria Assistita. La famiglia rifiuta. «Ci siamo guardati tutti negli occhi: – racconta Amedea – portiamolo a casa».
Davide e la famiglia sono parrocchiani di don Oreste Benzi. A casa, alla Grotta Rossa di Rimini, torna un ragazzo di 27 anni, da gestire come un neonato. Mamma Amedea vive nella sua camera. C’è da azionare l’ossigeno, fare punture, eliminare l’eccessivo catarro. «Non sapevo fare nulla – ammette la madre –. I primi due anni sono stati una tragedia». Davide ha lo sguardo nel vuoto, non manifesta reazioni. «Avevo pensato di farla finita, perché venivo già da un altro enorme dolore: la perdita di un figlio di soli 12 anni in seguito a incidente stradale». Sembra che il mondo crolli: «Sono stati due lunghi anni: ho capito la sofferenza nell’accettare la condizione dello stato vegetativo. Poi però occorre scegliere». Amedea ha scelto la vita. Per la seconda volta si è sposata con la vita «E mio figlio ha percepito la mia scelta. Lo abbiamo accettato incondizionatamente e ha iniziato a dare segnali positivi».
Davide ora ha 37 anni. Per i medici resta in stato vegetativo, ma nessuno, incontrandolo in casa, seduto sulla carrozzina, direbbe è "assente". «Sta bene, sorride spesso, è presente». Nel suo silenzio, nella sua immobilità, è parte integrante della famiglia. Simone, il fratello minore, sposato, fuga ogni dubbio. «Mamma, stai tranquilla: ci pensiamo noi a Davide, non andrà in istituto». Davide ha persino subito l’asportazione del rene ed è finito sotto i ferri tre volte nell’arco di 15 giorni. «Secondo i medici, non avrebbe retto neppure alla prima operazione – ricorda la mamma –. Invece ce l’ha fatta, sta bene ed è qui con noi». Anche il vescovo di Rimini Francesco Lambiasi ha fatto visita al ragazzo ed è in contatto con i familiari. Amedea pensa alla Giornata del 9 febbraio: «un’occasione per far parlare della vita che pulsa in situazioni oggettivamente difficili, un’opportunità per favorire la sensibilizzazione e la solidarietà su questi temi, per aumentare anche l’informazione», non sempre attenta a quanto accade realmente nelle famiglie.
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