Avvenire.it, 22 febbraio 2011 - Aspre e insensate polemiche sul fine vita - Il diritto più prezioso di Francesco D’Agostino
Si sta avvicinando il giorno in cui a Montecitorio si discuterà il disegno di legge sul "fine vita". Il tema è giuridicamente complesso ed emotivamente coinvolgente. Dovrebbe essere affrontato con pacatezza di ragionamento, sobrietà lessicale, assenza di pregiudizi, rinuncia all’uso di toni superfluamente emotivi, rispetto nei confronti opinioni diverse dalle proprie.
Purtroppo, alzando continuamente la voce, alcuni intellettuali di area libertaria stanno raccogliendo firme di adesione ad un appello esasperato, che definisce il testo che viene portato all’attenzione dei deputati ingannevole, ideologico, autoritario, anticostituzionale e, più nel dettaglio, declamatorio, superfluo, menzognero... se esso venisse approvato, dicono i suoi critici, «ciascuno di noi perderebbe il diritto fondamentale ad autodeterminarsi, verrebbe espropriato del potere di governare liberamente la propria vita».
Non è affatto così. Il disegno di legge cerca di trovare una saggia e difficile mediazione tra la tutela della vita, soprattutto quella dei malati terminali, considerata comunque un bene indisponibile, e il diritto di ogni persona a non essere sottoposta ad alcuna forma di accanimento terapeutico e soprattutto a quelle che essa consapevolmente rifiuti.
Non voglio entrare, in questa sede, in questioni di dettaglio. Il progetto di legge sul fine vita è stato faticosamente elaborato (anche a partire da un documento del Comitato nazionale per la Bioetica, che aveva riscosso a suo tempo significativi consensi bipartisan tra i cattolici come tra i laici), è stato rivisto, emendato, rielaborato, corretto: è evidente che esso è ancora migliorabile, come qualsiasi testo normativo e può ben darsi che continui a contenere norme inappropriate e forse imprecise o ambigue che meriterebbero di essere ulteriormente corrette.
La vera posta in gioco, però, non è come migliorare questo testo. Quello che è in gioco è un braccio di ferro bioetico tra "illuministi" e "realisti". Gli "illuministi" vedono la fine della vita umana posta sotto il segno di un’autodeterminazione lucida, serena, forte, coraggiosa, direi quasi "giovanile" e chiedono, in nome del rispetto per i diritti della persona, che la legge obblighi comunque i medici a rispettare l’autodeterminazione dei malati (indipendentemente dal fatto che possano essere o no malati terminali).
I "realisti" non negano, ovviamente, che l’autodeterminazione possa aver davvero rilievo in alcuni, rari casi, ma sono ben più attenti al dato di realtà, per il quale nella maggior parte dei casi la morte è evento senile, che si caratterizza per la fragilità, la debolezza, lo stato di paura e di assoluta dipendenza del morente. L’appello all’autodeterminazione, per i realisti, meriterebbe attenzione se non aprisse un varco inaccettabile all’abbandono terapeutico. I fautori della difesa ad oltranza dei diritti della persona non si rendono conto del fatto che, in buona sostanza, ne mettono a rischio il diritto più prezioso, quello alla vita. In questo consiste il loro (ingenuo?) "illuminismo".
Per convincersi di quanto sia concreto questo rischio basterebbe frequentare le corsie degli ospedali (l’hanno mai fatto i firmatari dell’appello sull’autodeterminazione?), in particolare di quelli che accolgono i malati terminali, i malati soli, gli "oldest old".
I morenti, gli anziani, gli abbandonati non sono illuministi; quello che davvero vogliono non è che si renda ossequio alla loro volontà, il più delle volte incerta, mutevole, dubbiosa; semplicemente non vogliono essere lasciati soli, vogliono essere "curati", cioè che ci si prenda cura di loro. Indurre i medici ad abbreviare la vita degli anziani, dei lungodegenti, dei malati terminali, vincolandoli a "rispettarne" lamenti, recriminazioni, richieste fatte in tempi lontani, esasperate da stati emotivi e carenti di adeguata informazione è un rischio che non possiamo correre e contro il quale il disegno di legge sul fine vita prende fermamente posizione, il che basta a renderlo apprezzabile.
Qui non è in gioco una visione religiosa o una visione laica della vita e della persona, ma, né più né meno, che la difesa dell’etica medica ippocratica, quella che, già secoli e secoli prima di Cristo, imponeva al medico di porsi sempre al servizio, e contemporaneamente, sia della persona che della vita.
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