Avvenire.it, 26 febbraio 2011, L'OSPITE - Una retta interpretazione del Ddl sulla fine della vita - Con le Dat non si impone nulla - Ma certe scelte non sono delegabili
Un grande maestro europeo del diritto, R. Von Ihering, ha scritto una volta un aureo libretto che ricordo di avere letto nei miei anni giovanili. Il titolo è Der Zweck im Recht (La finalità nel diritto). Lì Jhering spiega che per interpretare una norma e collocarla in modo corretto nel sistema normativo di cui essa è parte bisogna prima di tutto intendere la finalità della norma stessa, l’interesse umano che essa intende proteggere. Anche per capire la legge che stiamo facendo sulle Dichiarazioni Anticipate di trattamento dobbiamo domandarci: “quale è il telos (il fine), quale è l’interesse che la legge intende proteggere?”. È l’interesse ed il diritto della persona a vivere fino al termine naturale della propria esistenza. Questo implica il rifiuto della eutanasia ed il rifiuto dell’accanimento terapeutico. L’eutanasia pone alla vita un termine artificiale, fa morire una persona prima che la vita sia giunta al suo termine naturale.
L’accanimento terapeutico prolunga la vita oltre il suo termine naturale.
Non è possibile criticare questa legge per il fatto che essa non contiene prescrizioni eutanasiche. Qualcuno è a favore dell’eutanasia ed avrebbe voluto una legge che introducesse in Italia l’eutanasia, magari solo in alcuni casi, in modo da rompere la presunzione a favore della vita che regge oggi il nostro ordinamento e legittimare più tardi interventi legislativi più forti a favore della eutanasia. Io sono grato a chi afferma francamente di essere a favore della eutanasia perché questo permette di discutere con onestà intellettuale. Diffido un poco invece di chi inizia il suo discorso dicendo “io beninteso sono contro l’eutanasia” per poi arrivare nei fatti a chiedere la liberalizzazione di prescrizioni eutanasiche.
Vediamo adesso di fornire alcune chiarificazioni su alcuni artifici retorici che spesso ricorrono nella discussione intorno a questa legge. Alcuni dicono “io sono contro l’eutanasia ma non possiamo imporre la alimentazione forzata a chi non la vuole”. La legge non prevede nessuna alimentazione forzata. Se uno non vuole la alimentazione forzata e la rifiuta nessuno può imporgliela. Fa uso della sua libertà e ne dispone lui davanti a Dio e davanti agli uomini. Il problema insorge quando uno non è in grado di formulare un atto di volontà, per esempio perché è in coma. La persona non è in grado di badare a se stessa ed è affidata a chi ne ha cura. Immaginiamo che il paziente sia in cura intensiva e che siano esaurite le probabilità di una guarigione. Il paziente ha lasciato un documento in cui dice di non volere essere mantenuto in vita artificialmente. Il medico in questo caso ha il dovere di sospendere le cure straordinarie. A questo punto in genere il paziente muore. Servono in questo caso le direttive anticipate di trattamento? Certo che servono. Il medico avrebbe dovuto decidere comunque prima o poi di sospendere i trattamenti. Il fatto di avere la dichiarazione del paziente lo aiuta a prendere la decisione (insieme con il fiduciario indicato nelle dichiarazioni anticipate) e lo tutela anche contro possibili azioni legali dei familiari. La decisione verrà presa (probabilmente) prima e con minori difficoltà. A questo serve la dichiarazione anticipata di trattamento. Nella stragrande maggioranza dei casi le cose vanno in questo modo. Quasi tutti noi moriremo così.
A volte però il paziente anche dopo che tutte le terapie sono state interrotte si rifiuta di morire. Che dobbiamo fare in questo caso? Qualcuno pensa: provvediamo noi a farlo morire comunque, magari iniettandogli un qualche veleno nelle vene. Evidentemente questo non sarebbe un termine naturale dell’esistenza e ciò sarebbe incompatibile con la legge. Qualcuno allora, per aggirare questa difficoltà, propone di sospendere la alimentazione del paziente, per farlo morire di fame e di sete. È ammissibile questo? Evidentemente no. La morte per fame e per sete non sarebbe un termine naturale dell’esistenza. A rendere più penosa la situazione si aggiunge il fatto che non è sempre chiaro il confine fra il vero coma prolungato ed altri stati solo apparentemente simili nei quali il paziente mantiene sensibilità e capacità di soffrire, tanto è vero che chi sospende l’alimentazione e la idratazione ha cura di dare la sedazione al paziente perché è possibile, anzi probabile, che egli avverta il dolore. La legge pensa che questo non si possa fare ed il paziente debba essere alimentato fino a che sopravvenga la morte naturale.
Immaginiamo però che il paziente abbia lasciato scritto che non vuole la alimentazione artificiale. Che faremo in questo caso? La legge in preparazione dice che in questo caso non si deve tenere conto del documento. Perché? Perché è giusto obbedire alla volontà di chi dice di non volere la alimentazione artificiale e non è giusto obbedire ad un documento che chiede la stessa cosa? La ragione è semplice. Il rifiuto di terapie salvavita o di ordinarie misure di assistenza e cura che preservano la vita è un atto personalissimo assolutamente non delegabile. La persona deve esprimerlo direttamente. La ragione è che ogni atto di volontà si colloca in un contesto. Il contesto della imminente minaccia di vita è un contesto assolutamente straordinario. È elevata la probabilità che in quel contesto la persona esprimerebbe una indicazione diversa da quella che ha lasciato scritta in un documento. Ne abbiamo la riprova nel caso, ben noto, di chi tenta il suicidio. La sua volontà di morire è, in questo caso, evidente e comprovata da un gesto ben più eloquente di una dichiarazione scritta. Noi tuttavia lo assistiamo e, se questo è possibile, gli salviamo la vita. Nella maggioranza dei casi l’aspirante suicida è contento di essere stato salvato e non ripete il tentativo. Per questo è ingiusto parlare di “alimentazione forzata”. Semplicemente vale qui una presunzione a favore della vita in assenza di una indicazione contraria attuale. La semplice verità è che noi non sappiamo cosa pensi o voglia chi è in stato di incoscienza. In altre parole: se uno si suicida deve farlo lui personalmente, non può delegare l’incombenza ad altri e meno che mai al servizio sanitario nazionale.
Ma, si dice, in questo modo noi neghiamo il principio costituzionalmente garantito della autodeterminazione del paziente. E si cita, a questo proposito, l’art. 32 della Costituzione, secondo comma. Leggiamolo allora questo articolo 32, ma leggiamolo per intero e non in una versione abbreviata di comodo, come ha fatto anche di recente un autorevole commentatore del Corriere della Sera. Ecco il testo abbreviato e falsificato: “Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario”. Ecco il testo autentico: “Nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Invece di un divieto assoluto abbiamo qui una semplice riserva di legge. La riserva è poi rafforzata da una clausola di chiusura: “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. In altre parole ove venisse istituito un trattamento sanitario obbligatorio esso dovrebbe essere rivolto sempre (anche) al bene del paziente e dovrebbe trattarlo sempre come un fine in sé e non semplicemente come un mezzo. È risibile il tentativo di far derivare dal rispetto della persona umana il diritto alla eutanasia. Se alcuni vedono in tale diritto l’espressione suprema della libertà e dignità della persona altri vedono in esso la rinuncia più assoluta a tale libertà e dignità. È giusto che se ne discuta nel Parlamento e nel paese ma è bene che nessuno pretenda di chiudere le orecchie alle ragioni dell’altro sequestrando a proprio favore la Costituzione. La Costituzione è di tutti e non decide questo problema. Sarà bene ricordare, inoltre, che la Costituzione è il risultato di un patto fra cattolici, liberali laici e comunisti. Se una interpretazione capziosa ed estensiva altera i termini di questo patto e dichiara incostituzionali valori fondamentali dei cattolici allora è la ragione di vita della Costituzione che viene meno ed ha ragione chi dice che bisogna negoziare un nuovo patto costituzionale, ma non nelle aule dei tribunali bensì nel parlamento e nel paese. I cattolici possono accettare di essere sconfitti in una battaglia politica libera e democratica ma non possono accettare di essere considerati come cittadini di seconda categoria le cui convinzioni sono a priori contro la Costituzione.
Nel caso specifico che ci riguarda è però sbagliato scomodare l’art. 32 della Costituzione. Ciò di cui stiamo parlando sono semplicemente le condizioni di validità di un atto di volontà con cui si rinuncia a misure di sostegno vitale. Si dice semplicemente che questo atto non è delegabile. Nel bilanciamento fra il principio costituzionale della difesa della vita e quello della autodeterminazione si stabilisce un equilibrio per cui prevale il principio di autodeterminazione quando la volontà viene espressa direttamente e prevale il favor vitae quando manchi questa espressione diretta.
Resta infine da considerare un’ultima obiezione: la legge contraddirebbe gli indirizzi giurisprudenziali della Corte di Cassazione. Su questo punto basta replicare che le leggi non le fanno i giudici ma il Parlamento.
(testo integrale dell'intervento in Commissione Giustizia del 22 febbraio 2011, pubblicato in forma ridotta su Avvenire del 26 febbraio 2011)
Rocco Buttiglione, vicepresidente della Camera e presidente dell'Udc
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