mercoledì 23 febbraio 2011

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    CATECHESI DEL SANTO PADRE su San Roberto Bellarmino – 23 febbraio 2011
2)    L'Europa, ecco il nuovo fronte anticristiano di Marco Respinti, 22-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
3)    Quaresima memoria viva del nostro Battesimo di Massimo Introvigne, 22-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it/
4)    Saviano e le ragioni di una legge di Andrea Tornielli, 22-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
5)    Saviano e le ragioni di una legge di Andrea Tornielli, 22-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
6)    Sbarchi, accoglienza sì ma senza incentivi di Mauro Maurino*, 22-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
7)    SUI RISCHI LEGATI ALL'EUTANASIA, IL BELGIO FA SCUOLA - In un caso su tre la morte avviene senza richiesta o consenso del paziente di Paul De Maeyer, ROMA, martedì, 22 febbraio 2011 (ZENIT.org).
8)    Il fenomeno delle stimmate in Natuzza Evolo di Don Marcello Stanzione, da http://www.pontifex.roma.it
9)    Qualcosa si inizia a capire di Massimo Viglione - 22/02/2011 – da http://www.libertaepersona.org
10)                      IN DIFESA DELLA VITA - UNA LETTERA DELL’ON. OLIMPIA TARZIA – da http://www.riscossacristiana.it – Premessa: è con grande piacere che pubblichiamo questa lettera pervenuta dall’on. Olimpia Tarzia, una politica da sempre in prima linea per la difesa della Vita.
11)                      Prepararsi all'emergenza di Riccardo Cascioli, 23-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
12)                      La bandiera dell'educazione di Roberto Colombo, mercoledì 23 febbraio 2011, il sussidiario.net
13)                      J'ACCUSE/ Le tre menzogne di Rodotà e del "partito dell’eutanasia" di Alberto Gambino - mercoledì 23 febbraio 2011 – il sussidiario.net
14)                      IL GRINTA/ Con i Coen torna il western da Oscar che vuol parlare di giustizia di Maria Luisa Bellucci, mercoledì 23 febbraio 2011, il sussidiario.net
15)                      Avvenire.it, 23 febbraio 2011 - La tragica e bellissima forza dei fatti di Nord Africa - Libertà, gridano. Che sveglino la nostra di Davide Rondoni
16)                      La legge sul testamento biologico è un clamoroso autogol - 23/02/2011 - Eutanasia - di Alessandro Gnocchi & Mario Palmaro, da http://www.libertaepersona.org
17)                      "Libera marijuana" per fini medici di Giuseppe Brienza, 23-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

CATECHESI DEL SANTO PADRE su San Roberto Bellarmino – 23 febbraio 2011

Cari fratelli e sorelle,

San Roberto Bellarmino, del quale desidero parlarvi oggi, ci porta con la memoria al tempo della dolorosa scissione della cristianità occidentale, quando una grave crisi politica e religiosa provocò il distacco di intere Nazioni dalla Sede Apostolica.

Nato il 4 ottobre 1542 a Montepulciano, presso Siena, era nipote, per parte di madre, del Papa Marcello II. Ebbe un’eccellente formazione umanistica prima di entrare nella Compagnia di Gesù il 20 settembre 1560. Gli studi di filosofia e teologia, che compì tra il Collegio Romano, Padova e Lovanio, incentrati su san Tommaso e i Padri della Chiesa, furono decisivi per il suo orientamento teologico. Ordinato sacerdote il 25 marzo 1570, fu per alcuni anni professore di teologia a Lovanio. Successivamente, chiamato a Roma come professore al Collegio Romano, gli fu affidata la cattedra di “Apologetica”; nel decennio in cui ricoprì tale incarico (1576 – 1586) elaborò un corso di lezioni che confluirono poi nelle Controversiae, opera divenuta subito celebre per la chiarezza e la ricchezza di contenuti e per il taglio prevalentemente storico. Si era concluso da poco il Concilio di Trento e per la Chiesa Cattolica era necessario rinsaldare e confermare la propria identità anche rispetto alla Riforma protestante. L’azione del Bellarmino si inserì in questo contesto. Dal 1588 al 1594 fu prima padre spirituale degli studenti gesuiti del Collegio Romano, tra i quali incontrò e diresse san Luigi Gonzaga e poi superiore religioso. Il Papa Clemente VIII lo nominò teologo pontificio, consultore del Sant’Uffizio e rettore del Collegio dei Penitenzieri della Basilica di san Pietro. Al biennio 1597 – 1598 risale il suo catechismo, Dottrina cristiana breve, che fu il suo lavoro più popolare.

Il 3 marzo 1599 fu creato cardinale dal Papa Clemente VIII e, il 18 marzo 1602, fu nominato arcivescovo di Capua. Ricevette l’ordinazione episcopale il 21 aprile dello stesso anno. Nei tre anni in cui fu vescovo diocesano, si distinse per lo zelo di predicatore nella sua cattedrale, per la visita che realizzava settimanalmente alle parrocchie, per i tre Sinodi diocesani e un Concilio provinciale cui diede vita. Dopo aver partecipato ai conclavi che elessero Papi Leone XI e Paolo V, fu richiamato a Roma, dove fu membro delle Congregazioni del Sant’Uffizio, dell’Indice, dei Riti, dei Vescovi e della Propagazione della Fede. Ebbe anche incarichi diplomatici, presso la Repubblica di Venezia e l’Inghilterra, a difesa dei diritti della Sede Apostolica. Nei suoi ultimi anni compose vari libri di spiritualità, nei quali condensò il frutto dei suoi esercizi spirituali annuali. Dalla lettura di essi il popolo cristiano trae ancora oggi grande edificazione. Morì a Roma il 17 settembre 1621. Il Papa Pio XI lo beatificò nel 1923, lo canonizzò nel 1930 e lo proclamò Dottore della Chiesa nel 1931.

San Roberto Bellarmino svolse un ruolo importante nella Chiesa degli ultimi decenni del secolo XVI e dei primi del secolo successivo.

Le sue Controversiae costituirono un punto di riferimento ancora valido per l’ecclesiologia cattolica sulle questioni circa la Rivelazione, la natura della Chiesa, i Sacramenti e l’antropologia teologica. In esse appare accentuato l’aspetto istituzionale della Chiesa, a motivo degli errori che allora circolavano su tali questioni. Tuttavia Bellarmino chiarì gli aspetti invisibili della Chiesa come Corpo Mistico e li illustrò con l’analogia del corpo e dell’anima, al fine di descrivere il rapporto tra le ricchezze interiori della Chiesa e gli aspetti esteriori che la rendono percepibile.

In questa monumentale opera, che tenta di sistematizzare le varie controversie teologiche dell’epoca, egli evita ogni taglio polemico e aggressivo nei confronti delle idee della Riforma, ma utilizzando gli argomenti della ragione e della Tradizione della Chiesa, illustra in modo chiaro ed efficace la dottrina cattolica.

Tuttavia, la sua eredità sta nel modo con cui concepì il suo lavoro. I gravosi uffici di governo non gli impedirono, infatti, di tendere quotidianamente verso la santità con la fedeltà alle esigenze del proprio stato di religioso, sacerdote e vescovo. Da questa fedeltà discende il suo impegno nella predicazione. Essendo, come sacerdote e vescovo, innanzitutto un pastore d’anime, sentì il dovere di predicare assiduamente.

Sono centinaia i sermones – le omelie – tenuti nelle Fiandre, a Roma, a Napoli e a Capua in occasione di celebrazioni liturgiche. Non meno abbondanti sono le expositiones e le explanationes ai parroci, alle religiose, agli studenti del Collegio Romano, che hanno spesso per oggetto la sacra Scrittura, specialmente le Lettere di san Paolo. La sua predicazione e le sue catechesi presentano quel medesimo carattere di essenzialità che aveva appreso dall’educazione ignaziana, tutta rivolta a concentrare le forze dell’anima sul Signore Gesù intensamente conosciuto, amato e imitato.

Negli scritti di quest’uomo di governo si avverte in modo molto chiaro, pur nella riservatezza dietro la quale cela i suoi sentimenti, il primato che egli assegna agli insegnamenti del Signore. San Bellarmino offre così un modello di preghiera, anima di ogni attività: una preghiera che ascolta la Parola del Signore, che è appagata nel contemplarne la grandezza, che non si ripiega su se stessa, ma è lieta di abbandonarsi a Dio. Un segno distintivo della spiritualità del Bellarmino è la percezione viva e personale dell’immensa bontà di Dio, per cui il nostro Santo si sentiva veramente figlio amato da Lui ed era fonte di grande gioia il raccogliersi, con serenità e semplicità, in preghiera, in contemplazione di Dio. Nel suo libro De ascensione mentis in Deum - Elevazione della mente a Dio - composto sullo schema dell’Itinerarium di san Bonaventura, esclama: «O anima, il tuo esemplare è Dio, bellezza infinita, luce senza ombre, splendore che supera quello della luna e del sole. Alza gli occhi a Dio nel quale si trovano gli archetipi di tutte le cose, e dal quale, come da una fonte di infinita fecondità, deriva questa varietà quasi infinita delle cose. Pertanto devi concludere: chi trova Dio trova ogni cosa, chi perde Dio perde ogni cosa».

In questo testo si sente l’eco della celebre contemplatio ad amorem obtineundum – contemplazione per ottenere l’amore - degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio. Il Bellarmino, che vive nella fastosa e spesso malsana società dell’ultimo Cinquecento e del primo Seicento, da questa contemplazione ricava applicazioni pratiche e vi proietta la situazione della Chiesa del suo tempo con vivace afflato pastorale. Nel De arte bene moriendi – l’arte di morire bene - ad esempio, indica come norma sicura del buon vivere, e anche del buon morire, il meditare spesso e seriamente che si dovrà rendere conto a Dio delle proprie azioni e del proprio modo di vivere e cercare di non accumulare ricchezze in questa terra, ma di vivere semplicemente e con carità in modo da accumulare beni in Cielo. Nel De gemitu columbae - Il gemito della colomba, dove la colomba rappresenta la Chiesa - richiama con forza clero e fedeli tutti ad una riforma personale e concreta della propria vita seguendo quello che insegnano la Scrittura e i Santi, tra i quali cita in particolare san Gregorio Nazianzeno, san Giovanni Crisostomo, san Girolamo e sant’Agostino, oltre ai grandi Fondatori di Ordini religiosi quali san Benedetto, san Domenico e san Francesco.

Il Bellarmino insegna con grande chiarezza e con l’esempio della vita che non può esserci vera riforma della Chiesa se prima non c’è la nostra personale riforma e la conversione del nostro cuore.

Agli Esercizi spirituali di sant’Ignazio, il Bellarmino attingeva consigli per comunicare in modo profondo, anche ai più semplici, le bellezze dei misteri della fede: “Se hai saggezza, comprendi che sei creato per la gloria di Dio e per la tua eterna salvezza. Questo è il tuo fine, questo il centro della tua anima, questo il tesoro del tuo cuore. Perciò stima vero bene per te ciò che ti conduce al tuo fine, vero male ciò che te lo fa mancare. Avvenimenti prosperi o avversi, ricchezze e povertà, salute e malattia, onori e oltraggi, vita e morte, il sapiente non deve né cercarli, né fuggirli per se stesso. Ma sono buoni e desiderabili solo se contribuiscono alla gloria di Dio e alla tua felicità eterna, sono cattivi e da fuggire se la ostacolano” (De ascensione mentis in Deum, grad. 1).

Non sono parole passate di moda, ma da meditare a lungo per orientare il nostro cammino su questa terra. Ci ricordano che il fine della nostra vita è il Signore, il Dio che si è rivelato in Gesù Cristo, nel quale Egli continua a chiamarci e a prometterci la comunione con Lui. Ci ricordano l’importanza di confidare nel Signore, di spenderci in una vita fedele al Vangelo, di accettare e illuminare con la fede e con la preghiera ogni circostanza e ogni azione della nostra vita, sempre protesi all’unione con Lui. Amen.

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana


L'Europa, ecco il nuovo fronte anticristiano di Marco Respinti, 22-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Ieri i ministri degli Esteri dell’Unione Europea hanno approvato un testo di condanna delle violenze sui cristiani davvero poco coraggioso. Fra chi auspicava una presa di posizione più decisa vi è Sophia Kuby, tedesca, direttrice esecutiva dello European Dignity Watch, una Ong nata a metà dell’anno scorso ma a Bruxelles già attivissima nella difesa di quelli che statutariamente definisce «i tre pilastri più importanti della società: la vita, la famiglia e le libertà fondamentali».

Non appena è stato reso noto il documento approvato dai ministri degli Esteri della Ue lei, pensando alle condizioni e in cui versano moltissimi cristiani nel mondo, lo ha subito definito «debole». Perché?
Perché è troppo generico. Del resto a preoccupare non sono solo le persecuzioni violente di cui i cristiani sono vittime in Africa, Medioriente e Asia, ma pure quelle, crescenti, che li colpiscono addirittura in Europa. Di ciò la gente non ha affatto sentore, mentre qualsiasi gesto politicamente scorretto riguardi un musulmano causa subito enorme scandalo sui media. Prendiamo per esempio in considerazioni i recenti attacchi di cui sono stati oggetto diversi sacerdoti cattolici in Germania, sopresi nel cuore della notte da gruppi di uomini incappucciati che, parlando con accento straniero, li hanno percossi tanto violentemente da renderne necessario il ricovero in ospedale. La notizia è stata data dai giornali locali e solo da qualche testata nazionale, ma, trascorso un giorno appena, tutto è finito nel dimenticatoio. Immaginiamoci cosa sarebbe accaduto se l’incidente fosse capitato a un imam…

Perché i cristiani vengono perseguitati?
Lasci che le risponda concentrandomi ancora sullo scenario europeo, quello di cui si occupa lo European Dignity Watch. In Europa esiste una crescente persecuzione “strutturale”, ovvero una discriminazione che colpisce i cristiani attraverso legislazioni ostili, politiche vessatorie e opinioni pubbliche malevole. Raccogliamo testimonianze continue di leggi che limitano le libertà fondamentali sia a livello europeo sia a livello nazionale allo scopo di creare una “giustizia” maggiore che però viene definita solamente come diritto alla non-discriminazione. Il criterio che sembra guidare oggi le istituzioni comunitarie è quindi l’eguaglianza assoluta che definisce qualsiasi differenza intrinsecamente illegittima sul piano morale. Ma un conto è la discriminazione e un altro la distinzione. Per i cristiani non è possibile non distinguere. Mi spiego. Per un cristiano matrimonio e famiglia sono valori centrali. Nella prospettiva cristiana, il matrimonio tra un uomo e una donna è una realtà tanto unica e preziosa da essere un sacramento: per questo i cristiani ritengono che quell’istituto meriti protezione speciale, principio del resto recepito nella maggior parte delle costituzioni degli Stati europei. Insomma, è naturale che i cristiani considerino in modo profondamente diverso il matrimonio rispetto a ogni altra  forma di unione fra individui. Significa allora che i cristiani discriminano chi, non sposandosi, non gode di quella particolare protezione?

L’Europa sta certamente diventando uno scenario inquietante di persecuzione “bianca”. Ma nel resto del mondo, là dove si muore ogni giorno per il nome di Cristo, quali sono a suo avviso le situazioni più gravi?
Specialmente in Asia e Africa, l’islam sta prendendo il controllo dei Paesi più poveri. Ciò comporta nuove ondate di crudeltà contro gli “altri”, come nei mesi scorsi si è visto in Egitto, Iraq e Turchia. In Paesi come la Nigeria e l’Indonesia i cristiani erano abituati a vivere liberamente la propria fede, ma oggi sono diventati cittadini di seconda classe esclusi da molte attività pubbliche e le loro vite sono costantemente minacciate.
Ora, se in Africa, Asia e Medioriente è chiaro che il pericolo viene pressoché unicamente dall’islamismo radicale, in Europa la situazione è diversa. Infatti, ancorché le minoranze islamiche stiano maturando anche da noi una coscienza nuova che comporta non pochi problemi nelle grandi città e talora persino nelle scuole, il problema centrale del Vecchio Continente è l’autoeliminazione dei valori cristiani operata dai ceti politici, dai media e dalle istituzioni. Ricordiamoci, per esempio, la decisione presa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo sulla presunta illegittimità della presenza dei crocifissi nelle scuole italiane. Altro esempio rivelatorio è il rapporto stilato dal Consiglio d’Europa in ottobre sui limiti da imporre all’obiezione di coscienza esercitata dai medici e dagli ospedali che rifiutano di praticare l’aborto. L’Unione Europea sta ora discutendo quella direttiva sul "principio di parità" che conferirebbe a chiunque il diritto di accusare chicchessia di discriminazione sulla semplice base di una personale percezione di “ineguaglianza”… In molti Paesi europei le leggi che puniscono l’incitamento all’odio rendono impossibile la citazione in pubblico di passi della Bibbia, come è accaduto non molto tempo fa in Gran Bretagna.  La lista, insomma, cresce: per questo c’è bisogno di ritornare alla ragione.


Quaresima memoria viva del nostro Battesimo di Massimo Introvigne, 22-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it/

Il 22 febbraio il Santo Padre ha reso pubblico il suo Messaggio per la Quaresima 2011, formalmente datato 4 novembre 2010. Il Messaggio insiste sul «nesso particolare che lega il Battesimo alla Quaresima», ed esorta a fare della Quaresima un tempo in cui ciascuno di noi ricorda il proprio Battesimo e riflette su che cosa il Battesimo concretamente significa.

«Il fatto - scrive il Papa - che nella maggioranza dei casi il Battesimo si riceva da bambini mette in evidenza che si tratta di un dono di Dio: nessuno merita la vita eterna con le proprie forze. La misericordia di Dio, che cancella il peccato e permette di vivere nella propria esistenza "gli stessi sentimenti di Cristo Gesù" (Fil 2,5), viene comunicata all’uomo gratuitamente». Commentando diversi brani di san Paolo il Pontefice nota che «il Battesimo [...] non è un rito del passato, ma l’incontro con Cristo che informa tutta l’esistenza del battezzato, gli dona la vita divina e lo chiama ad una conversione sincera, avviata e sostenuta dalla Grazia, che lo porti a raggiungere la statura adulta del Cristo».

La Quaresima va vissuta come speciale memoria del Battesimo, e quindi «come momento favorevole per sperimentare la Grazia che salva. I Padri del Concilio Vaticano II hanno richiamato tutti i Pastori della Chiesa ad utilizzare "più abbondantemente gli elementi battesimali propri della liturgia quaresimale" (Cost. Sacrosanctum Concilium, 109). Da sempre, infatti, la Chiesa associa la Veglia Pasquale alla celebrazione del Battesimo: in questo Sacramento si realizza quel grande mistero per cui l’uomo muore al peccato, è fatto partecipe della vita nuova in Cristo Risorto e riceve lo stesso Spirito di Dio che ha risuscitato Gesù dai morti (cfr Rm 8,11). Questo dono gratuito deve essere sempre ravvivato in ciascuno di noi».

Non solo la Quaresima è memoria del Battesimo, ma «ci offre un percorso analogo al catecumenato, che per i cristiani della Chiesa antica, come pure per i catecumeni d’oggi, è una scuola insostituibile di fede e di vita cristiana: davvero essi vivono il Battesimo come un atto decisivo per tutta la loro esistenza».

Il nesso fra Battesimo e Quaresima, spiega il Papa, vive anzitutto nella liturgia: «la Chiesa, nei testi evangelici delle domeniche di Quaresima, ci guida ad un incontro particolarmente intenso con il Signore, facendoci ripercorrere le tappe del cammino dell’iniziazione cristiana: per i catecumeni, nella prospettiva di ricevere il Sacramento della rinascita, per chi è battezzato, in vista di nuovi e decisivi passi nella sequela di Cristo e nel dono più pieno a Lui».

Illustrando questo cammino, Benedetto XVI esamina uno per uno i Vangeli delle cinque domeniche di Quaresima che, letti insieme, ripercorrono in effetti il cammino dei catecumeni. Nella prima domenica, siamo chiamati a contemplare «la condizione dell’uomo su questa terra. Il combattimento vittorioso contro le tentazioni, che dà inizio alla missione di Gesù, è un invito a prendere consapevolezza della propria fragilità». Non si tratta solo di fragilità intrinseca alla condizione umana. Il Vangelo ci richiama alla realtà delle insidie del demonio e comprende, afferma il Papa, «un deciso richiamo a ricordare come la fede cristiana implichi, sull’esempio di Gesù e in unione con Lui, una lotta "contro i dominatori di questo mondo tenebroso" (Ef 6,12), nel quale il diavolo è all’opera e non si stanca, neppure oggi, di tentare l’uomo che vuole avvicinarsi al Signore».

Ma Cristo è sempre più forte del demonio, e nella seconda domenica «il Vangelo della Trasfigurazione del Signore pone davanti ai nostri occhi la gloria di Cristo, che anticipa la risurrezione e che annuncia la divinizzazione dell'uomo». Meditare la Trasfigurazione invita «a prendere le distanze dal rumore del quotidiano per immergersi nella presenza di Dio».

La terza domenica propone l'incontro di Gesù con la donna samaritana, cui il Signore chiede: «Dammi da bere» (Gv 4,7). Questo Vangelo «esprime la passione di Dio per ogni uomo e vuole suscitare nel nostro cuore il desiderio del dono dell’ "acqua che zampilla per la vita eterna" (v. 14): è il dono dello Spirito Santo, che fa dei cristiani "veri adoratori" in grado di pregare il Padre "in spirito e verità" (v. 23). Solo quest’acqua può estinguere la nostra sete di bene, di verità e di bellezza! Solo quest’acqua, donataci dal Figlio, irriga i deserti dell’anima inquieta e insoddisfatta, "finché non riposa in Dio", secondo le celebri parole di sant’Agostino [354-430]».

La quarta domenica della Quaresima è la «domenica del cieco nato», e «presenta Cristo come luce del mondo. Il Vangelo interpella ciascuno di noi: "Tu, credi nel Figlio dell’uomo?". "Credo, Signore!" (Gv 9,35.38), afferma con gioia il cieco nato, facendosi voce di ogni credente. Il miracolo della guarigione è il segno che Cristo, insieme alla vista, vuole aprire il nostro sguardo interiore, perché la nostra fede diventi sempre più profonda e possiamo riconoscere in Lui l’unico nostro Salvatore. Egli illumina tutte le oscurità della vita e porta l’uomo a vivere da "figlio della luce"».

Infine, nella quinta domenica, con  la risurrezione di Lazzaro, «siamo messi di fronte al mistero ultimo della nostra esistenza: "Io sono la risurrezione e la vita… Credi questo?" (Gv 11,25-26). Per la comunità cristiana è il momento di riporre con sincerità, insieme a Marta, tutta la speranza in Gesù di Nazareth: "Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo" (v. 27). La comunione con Cristo in questa vita ci prepara a superare il confine della morte, per vivere senza fine in Lui. La fede nella risurrezione dei morti e la speranza della vita eterna aprono il nostro sguardo al senso ultimo della nostra esistenza: Dio ha creato l’uomo per la risurrezione e per la vita, e questa verità dona la dimensione autentica e definitiva alla storia degli uomini, alla loro esistenza personale e al loro vivere sociale, alla cultura, alla politica, all’economia. Privo della luce della fede l’universo intero finisce rinchiuso dentro un sepolcro senza futuro, senza speranza».

Attraverso questo percorso catecumenale, vera preparazione alla grande festa della Pasqua, la Chiesa vuole insegnarci, afferma il Pontefice, «a liberare il nostro cuore dal peso delle cose materiali, da un legame egoistico con la "terra", che ci impoverisce e ci impedisce di essere disponibili e aperti a Dio e al prossimo».
Non basta ascoltare la Parola di Dio. In Quaresima siamo invitati ad accompagnare la meditazione con «le pratiche tradizionali del digiuno, dell’elemosina e della preghiera, espressioni dell’impegno di conversione».
Il problema della tentazione è infatti molto concreto, e si manifesta in particolare nella brama «dell’avere, dell’avidità di denaro, che insidia il primato di Dio nella nostra vita. La bramosia del possesso provoca violenza, prevaricazione e morte; per questo la Chiesa, specialmente nel tempo quaresimale, richiama alla pratica dell’elemosina, alla capacità, cioè, di condivisione. L’idolatria dei beni, invece, non solo allontana dall’altro, ma spoglia l’uomo, lo rende infelice, lo inganna, lo illude senza realizzare ciò che promette, perché colloca le cose materiali al posto di Dio, unica fonte della vita».

In tutti questi diversi modi e significati, dunque, la Quaresima «ci conduce a riscoprire il nostro Battesimo», che molti di noi hanno dimenticato o escludono dalla propria memoria o dai propri pensieri. invece, esorta il Papa, «quanto il Sacramento significa e realizza, siamo chiamati a viverlo ogni giorno in una sequela di Cristo sempre più generosa e autentica. In questo nostro itinerario, ci affidiamo alla Vergine Maria, che ha generato il Verbo di Dio nella fede e nella carne, per immergerci come Lei nella morte e risurrezione del suo Figlio Gesù ed avere la vita eterna».


Saviano e le ragioni di una legge di Andrea Tornielli, 22-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Lo scrittore Roberto Saviano ha messo in rete un videomessaggio per dichiarare «illiberale» il disegno di legge sul fine vita in discussione alla Camera, sostenendo che quel testo «complica le cose», le «burocratizza», non difende la «libertà di decidere».

Il disegno di legge in questione, presentato in seguito alla morte di Eluana Englaro, la donna in stato vegetativo dal 1992, che si è spenta dopo la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione, stabilisce che fornire acqua e nutrimento a una persona in coma non può essere considerato accanimento terapeutico. Alimentazione e idratazione, insomma, non possono essere considerate delle cure da poter sospendere.

Saviano, autore di best seller sulla criminalità organizzata, apprezzato editorialista di Repubblica e narratore in programmi televisivi di successo, da molti indicato persino come leader ideale del Pd, scende dunque in campo per dire no alla legge in discussione in Parlamento. Non si limita più, come fece a «Vieni via con me» di Fabio Fazio, al racconto di storie particolari, anche se a senso unico, dando voce soltanto ai fautori dell’eutanasia o del diritto a interrompere alimentazione e idratazione, come nei casi di Piergiorgio Welby e di Peppino Englaro. E da quelle storia ora trae le conseguenze legislative spiegandoci perché quella legge non va.

Saviano critica i «pro life» perché con il loro nome farebbero apparire «pro morte» tutti quelli che non la pensano come loro, e afferma che in gioco non c’è soltanto la questione dei malati in stato vegetativo e l’accanimento terapeutico, ma più in generale la libera sessualità, il libero pensiero, in una parola la democrazia.

Il diritto del testamento biologico (in realtà quello dell’eutanasia voluta da Welby) viene dunque inserito in quella cornice di battaglie per i «diritti individuali» che caratterizzano molte società occidentali, le quali, per essere veramente «moderne» e «democratiche», devono prevedere non solo il divorzio e l’aborto, ma anche il riconoscimento giuridico e possibilità di adozione per le coppie gay, la manipolazione degli embrioni, e, per l’appunto, il suicidio assistito. Ancora una volta, dunque, in nome della «libertà di scelta» si finisce per voler mettere in discussione valori fondamentali e la stessa intangibilità della vita umana.

L’apparato mediatico è enorme, formidabile: le «storie» a senso unico narrate con commozione a «Vieni via con me» hanno inchiodato davanti alla tv milioni di spettatori italiani; questo nuovo videomessaggio, indirizzato all’happening «Le ragioni del cuore» al che ha visto protagonisti a Roma Beppino Englaro e il deputato Ignazio Marino, viene lanciato e rilanciato in rete.

Ancora una volta, però, vale la pena ragionare al di là delle emozioni e di certi messaggi suadenti. Ricordando ad esempio che nei Paesi dove l’eutanasia è legge già da molti anni, a decidere poi effettivamente sono i medici e non i malati. Il disegno di legge, pur con tutti i suoi limiti, rappresenta dunque il ragionevole tentativo di arginare l’intervento della magistratura sui singoli casi, com’è accaduto per Eluana.

Pone dei limiti e dei confini. Vieta ogni forma di eutanasia e di suicidio assistito. Vieta anche l’accanimento terapeutico, stabilendo che «nessun trattamento sanitario può essere attivato a prescindere dall’espressione del consenso informato» e che «in casi di pazienti in stato di fine vita o in condizioni di morte prevista come imminente, il medico debba astenersi da trattamenti straordinari non proporzionati, non efficaci o non tecnicamente adeguati rispetto alle condizioni cliniche del paziente o agli obiettivi di cura».

Afferma soprattutto, in accordo con la Convenzione Onu sui diritti delle persone in condizione di disabilità, che «alimentazione e idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, devono essere mantenute fino al termine della vita, ad eccezione del caso in cui le medesime risultino non più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo. Esse non possono essere formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento».


Sbarchi, accoglienza sì ma senza incentivi di Mauro Maurino*, 22-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Le rivolte civili in Medio Oriente stanno costringendo decine di migliaia di africani a scappare dai loro paesi e l’Italia, essendo protesa verso quelle zone, è sicuramente uno dei primi approdi. Sono ripresi gli sbarchi a Lampedusa e non solo e le televisioni ci inondano di immagini di questi disperati che giungono a noi su barche improponibili e ricomincia la conta dei morti.

E’ lecito domandarsi come l’Italia e l’Europa, sorprese da questa improvvisa ondata di migranti, stanno rispondendo. Diciamo subito che l'Italia ha un sistema di accoglienza che è predisposto per fronteggiare una richiesta di asilo, accoglienza e contenimento. Innanzitutto in queste ore bisogna dare efficienza a questo sistema, che è ordinario ed è in grado di dare risposte utili a fronteggiare la situazione. Ma ora siamo in una situazione “straordinaria” e quindi bisogna ricercare la collaborazione di altre realtà e strutture disponibili con personale e luoghi fisici di accoglienza già pronte perché solo dismesse causa riduzione degli arrivi dei clandestini.

Adesso siamo di fronte ad una emergenza e quindi il primo problema è dare aiuto alle persone: cibo, vestiario casa, cure mediche. Vi è poi il problema cultura della cosiddetta invasione, ovvero della paura che abbiamo in occidente di essere invasi dagli africani causa queste guerre. Il problema sta nella definizione. Se ci immaginiamo invasi, chiunque sbarchi è un invasore. Se invece si prende atto che una parte del mondo vicino a noi è in subbuglio, e da sempre in queste situazioni vi è anche movimento di popolo (non è solo la globalizzazione ad aver generato spostamento dei popoli) allora verifichiamo se siamo capaci di aiutare i paesi a dare condizioni dignitose di vita ai loro cittadini oppure sarà inevitabile che il tema dell'invasione o accoglienza ci accompagnerà sempre. Siamo di fronte a un fenomeno che non arresteremo per tempi indefiniti, un fenomeno con luci e ombre di cui paghiamo il prezzo e godiamo dei vantaggi. Faccio un esempio.

Quando nel dopoguerra gli istriani sono venuti a centinaia di migliaia per qualcuno erano degli italiani che tornavano a casa per altri erano fascisti. La diversa prospettiva cambiava radicalmente il modo di rapportarsi con le persone (non con il movimento di popolo) e quindi anche l'idea di convivenza e di qualità della vita che ne derivava. L'invasione cosiddetta è anche incentivata da risposte affrettate come quella di trasformare l’ex “residence degli aranci” di Mineo (Catania) nel “villaggio della solidarietà” per rifugiati e immigrati (come deciso dal Ministero dell’Interno): non si tratta della solita caserma dell’esercito abbandonata ma di un complesso con 404 villette indipendenti, dotato di strutture commerciali, palestre, campi da tennis e football, un asilo nido, una sala per le funzioni religiose e 12 ettari di spazi verdi.

Siamo sinceri e realisti. Mineo è problematico per più ragioni. Una legata ai numeri. Nei centri oggi viene fatto un lavoro particolare che richiede attenzione e che spesso non è compatibile con dimensioni troppo elevate. Con questi numeri la diagnosi e la prevenzione sanitaria diventano problematiche così come è molto difficile l’attenzione alla persone vulnerabili (tratta delle donne vittime di tortura) che necessitano di un supporto psicologico e di una attenzione particolare. Dico di più: di fronte ad una ipotesi di tensione e di rivolta, col coinvolgimento di settemila persone, chi interviene? L’esercito? Chi sarà in grado di garantire la sicurezza? Cosa può succedere a Mineo se settemila migranti decidono che non stanno loro bene le cose così come sono? Mineo assolutamente non garantisce sicurezza! Infine è un'ingenuità dire svuotiamo i Cara (Centri di accoglienza per richiedenti asilo) e li trasformiamo in Cie (Centri per l’identificazione e l’espulsione, ex Cpt ovvero Centri di permanenza temporanea). Questo non accade naturalmente, poiché i Cie richiedono strutture che non sono necessariamente rappresentate dagli attuali Cara. L'adattamento richiede spese, e tempi non indifferenti, spesso per avere strutture inefficienti e non in grado di servire allo scopo del contenimento.

Visto che l'Italia ha uno strumento ordinario per gestire il fenomeno perché avviare immediatamente qualcosa di straordinario? Si afferma che si vuole interrompere il flusso di arrivi e poi si garantisce agli sbarcati un villaggio fatto di villette, piscine, palestre. Naturalmente non si riflette sull'effetto richiamo che avrebbe una scelta del genere. Non si tratta di frustrare le attese di persone che arrivano in Italia per inseguire un sogno ma nemmeno di incentivare l'idea che nel nostro paese tutto è dato, tutto è facile e dunque... Nel concentrare su un unico territorio i rifugiati si dimentica che oggi nel "disperdere" le persone si ottiene che tanti territori si sono attivati per integrare queste persone. Possiamo immaginare che concentrando a Mineo otteniamo lo stesso effetto? Dopo Mineo, dove andranno? Come potremo verificare i percorsi di queste persone.

Oggi la nostra decennale esperienza ci insegna che spesso siamo in grado di continuare ad avere rapporti con loro, continuare ad aiutare ma anche ottenere da loro per il nostro Paese per il semplice fatto che piano piano diventano membri della comunità e dei territori in cui sono stati ospitati. Mineo non sarà la stessa cosa. E’ una scelta totalmente sbagliata ed affrettata.
*direttivo Connecting People


SUI RISCHI LEGATI ALL'EUTANASIA, IL BELGIO FA SCUOLA - In un caso su tre la morte avviene senza richiesta o consenso del paziente di Paul De Maeyer, ROMA, martedì, 22 febbraio 2011 (ZENIT.org).

ROMA, martedì, 22 febbraio 2011 (ZENIT.org).- Ad inizio marzo, il parlamento italiano dovrebbe votare la proposta di legge sulle cosiddette "dichiarazioni anticipate di trattamento" o DAT. Il progetto relativo a queste "volontà anticipate" o anche "testamento vitale" chiude la porta all'eutanasia passiva e all'interruzione dell'alimentazione e dell'idratazione artificiali. In seguito al caso di Eluana Englaro - la donna di Lecco per 17 anni in stato vegetativo, morta il 9 febbraio del 2009 dopo la sospensione della nutrizione assistita su richiesta del padre, Beppe Englaro -, il testo esclude inoltre il ricorso ad eventuali orientamenti espressi dal paziente al di fuori delle modalità stabilite dalla legge.
Mentre i sostenitori della "dolce morte" e del suicidio assistito definiscono il disegno di legge sul biotestamento "proibitivo", "illiberale" e persino "liberticida", da uno dei pochi paesi europei dove l'eutanasia è stata legalizzata, il Belgio (dal 2002), provengono notizie che invitano ad una profonda riflessione e dimostrano tra l'altro quanto sia reale il rischio di abusi o derive.
Nel regno - senza governo da circa 250 giorni ormai, un "record" -, la formula delle "dichiarazioni anticipate di eutanasia" non sembra suscitare molto entusiasmo. Come ha riferito sabato 19 febbraio il quotidiano Le Soir, a fine 2010 erano state registrate presso le autorità competenti - l'SPF (Servizio Pubblico Federale) Salute Pubblica - 24.046 di queste dichiarazioni, delle quali tre quarti nelle Fiandre, cioè la parte settentrionale e anche più popolosa del paese. Nel corso del 2010 sono state registrate inoltre "solo" 8.000 nuove dichiarazioni, ossia una media settimanale di 170, una cifra ritenuta troppo bassa. Per il quotidiano di Bruxelles, a frenare la divulgazione della prassi sarebbe l'obbligo di recarsi presso i servizi pubblici accompagnato da due testimoni di età adulta e inoltre il fatto che il documento va rinnovato ogni cinque anni per essere valido.
Uno sviluppo ben più preoccupante è quello segnalato il 25 gennaio scorso da Wesley J. Smith, noto oppositore all'eutanasia e al suicidio assistito. Nel suo blog Secondhand Smoke, sul sito della rivista statunitense First Things, Smith ha richiamato infatti l'attenzione su un progetto presentato nel dicembre 2010 da tre trapiantologi belgi - i professori Dirk Ysebaert, dell'Università di Anversa (UA), Dirk Van Raemdonck, dell'Università Cattolica di Lovanio (KUL) , e Michel Meurisse, dell'Università di Liegi (ULg) - durante un simposio sulla donazione e il trapianto di organi nel paese, organizzato dall'Accademia Reale di Medicina del Belgio.
Nella loro presentazione in PowerPoint, intitolata "Organ Donation after Euthanasia. Belgian experience: medical & practical aspects" e scaricabile da Internet [1], i tre medici hanno proposto una serie di linee guida per inquadrare il prelievo di organi per trapianti da persone morte per eutanasia. Come spiegano gli autori, esattamente il 20% o un quinto (cioè 141 su 705) delle persone che nel 2008 hanno scelto ufficialmente l'eutanasia in Belgio soffriva di disturbi neuromuscolari. Poiché si tratta di pazienti con organi di una qualità relativamente "alta", rappresentano dunque una categoria di potenziali donatori da prendere in considerazione per combattere la penuria di organi in Belgio e gli altri paesi membri dell'organizzazione Eurotransplant. Secondo i tre accademici belgi, che chiedono comunque una "stretta separazione" tra la richiesta e la procedura dell'eutanasia e poi il prelievo, "la donazione di organi dopo l'eutanasia è fattibile". D'altronde, così ribadiscono, "il forte desiderio di un paziente di donare non va negato".
La proposta dei tre medici non è campata per aria ma basata - come suggerisce il titolo della loro presentazione - su una prassi già esistente. La letteratura scientifica menziona infatti almeno quattro casi di pazienti morti per eutanasia in Belgio a cui sono stati prelevati organi per trapianti. Un caso è quello trovato da Wesley Smith sulla rivista Transplantation di una donna non terminale ma caduta in uno stato detto "locked-in", una condizione nella quale la persona è perfettamente cosciente e sveglia ma si trova nell'incapacità di comunicare perché completamente paralizzata. Dieci minuti dopo il decesso procurato della donna, dichiarato da tre medici diversi ed avvenuto in presenza del marito, le sono stati tolti il fegato e i reni.
"E' un terreno molto pericoloso, reso ancora più infido da medici, coniugi e da una rispettata rivista medica, quello di avvalorare le idee secondo cui è meglio essere morti che handicappati e che dei pazienti viventi possono, in sostanza, essere considerati una risorsa naturale da uccidere e da sfruttare", così osserva Smith sempre sul suo blog Secondhand Smoke (First Things, 8 maggio 2010).
L'organizzazione Eurotransplant - la rete europea che unisce i centri trapianti del Benelux (Belgio, Lussemburgo e Olanda) e di Austria, Croazia, Germania e Slovenia - ha reagito con preoccupazione alla notizia. Da parte sua, l'eurodeputato e portavoce della CDU (il partito democristiano della cancelliera tedesca Angela Merkel) per le questioni bioetiche, Peter Liese, ha messo in guardia contro il pericolo che venga esercitata una "pressione sottile" sui pazienti affinché donino i loro organi (Die Tagespost, 12 febbraio).

Che il "modello belga" si sta incamminando sul cosiddetto "piano scivoloso" o "slippery slope" lo dimostrano d'altronde altri due studi pubblicati l'anno scorso, il primo a maggio sul Canadian Medical Association Journal (CMAJ) e il secondo ad ottobre sul British Medical Journal (BMJ).
Il primo studio rivela che quasi un terzo (il 32%) dei casi di "morte medicalmente assistita" nella regione delle Fiandre avviene senza richiesta o consenso del paziente. In più della metà di questi casi - il 52,7% - la persona cui è stata applicata l'eutanasia, senza la sua esplicita richiesta, aveva 80 anni o più.
Dalla seconda inchiesta emerge inoltre che appena la metà (il 52,8%) di tutti i decessi per eutanasia nelle Fiandre è stata comunicata all'organismo competente, la Commissione Federale di Controllo e di Valutazione, anche se la legge richiede di farlo. Colpisce inoltre il fatto che in quasi la metà dei casi non segnalati (il 41,3%) la procedura dell'eutanasia è stata eseguita da un infermiere in assenza di un medico. La legge belga prevede invece che esclusivamente un medico può praticare l'eutanasia.
Comunque, per i sostenitori dell'eutanasia l'attuale legge belga – anche se ritenuta "ben funzionante" - non è ancora sufficiente. Non solo un esperto in cure palliative, il professor Wim Distelmans, della Vrije Universiteit Brussel (VUB), ha lanciato di recente un appello per creare in Belgio una vera e propria "clinica dell'eutanasia" (De Morgen, 22 gennaio), ma aumentano le richieste di estendere l'eutanasia anche ai minori, legalizzando in questo modo una prassi già ben radicata. Lo ha rivelato uno studio reso pubblico nel marzo del 2009 sull'American Journal of Critical Care (AJCC): in cinque delle sette unità di cure intensive pediatriche del Belgio i casi sono stati almeno 76 nel biennio 2007-2008.
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Il fenomeno delle stimmate in Natuzza Evolo di Don Marcello Stanzione, da http://www.pontifex.roma.it

La fenomenologia stimmatica inizia in Natuzza Evolo, la famosa mistica calabrese defunta il primo novembre del 2009, già all’età di circa 10 anni con delle piccole lesioni, come dei “forellini”, sia ai polsi che ai piedi, la cui formazione non è dovuta ad una causa naturale. Questi orefizi si estendono e si approfondiscono negli anni, localizzandosi anche nella zona al di sotto della mammella sinistra e della spalla destra, ovvero ricalcano i punti dove la Tradizione colloca le ferite della Passione di Nostro Signore Gesù Cristo. A ragione della loro evidenza, Natuzza non può negare queste manifestazioni. Comincia ad indossare camicie con  le maniche lunghe e a tenere le braccia conserte per il disagio che prova nel sentire su di sé gli sguardi e l’interesse di quanti la incontrano nel periodo della Quaresima. Anzi, lo stesso marito, Pasquale Nicolace, viene a conoscenza della stimmata al cuore molto tempo dopo che è apparsa. Secondo ...

... il dott. Molè, Natuzza presenta: stimmate e trasverberazioni dal 1938 al 1989 (termine della sua indagine). All’inizio della Quaresima la fenomenologia stimmatica si evidenziava con un’ipersensibilità diffusa alle zone interessate che a mano a mano si acutizza: con dolori brucianti e lancinanti, con sanguinamento nelle due settimane precedenti la Pasqua, con presenza discontinua di “chiazze venose” fino a diventare vere lesioni. Le lesioni non sono profonde, fatto salvo la zona delle caviglie, la cute tra le lesioni è integra e così ai margini esterni.

Tali ferite si conservano sterili, cioè prive di germi patogeni, quindi non soggette a processi suppurativi, infiammatori, edematosi o a granulazioni fungoidi. Vicino alle lesioni si formavano fibre di coaguli. A Pasqua il sanguinamento si arrestava e iniziava la cicatrizzazione delle lesioni con notevoli modificazioni: escare, croste, squame che gradualmente cadono fino a presentare a distanza di mesi prima delle cicatrici biancastre e lucenti e poi una cute integra (Cfr. V. Marinelli, “Natuzza di Paravati”, in R. Molè (a cura di), Le stimmate, Ed. Mapograf s. r. l., Vibo Valentia (1989), vol. 3 pp. 71-72).

Sedi delle lesioni come sono state viste e descritte dal dott. R. Molè: “Queste manifestazioni si riscontrano ai polsi, e dalla ragione infero-dorsale degli avambracci si estendono fino al corpo, mentre nella regione volare sono poco evidenti, ed al polso sinistro è bene evidente in senso verticale il Crocifisso; alle caviglie, sulla regione dorsale del collo del piede vi sono due squarci profondi per parte, ed in senso verticale, mentre nella regione posteriore all’altezza del tendine di Achille bilateralmente si notano tre squarci per parte, che, a destra hanno la forma ovoidale ed il terzo nella regione mediale a forma lineare verticale e più profondo; alle ginocchia le stimmate sono molte estese, e a sinistra si vede il Volto di Cristo più marcato, mentre al ginocchio destro si evidenziano delle lesioni multiple, difforme ed estese; al costato sinistro, circa quattro dita traverse al di sotto dell’aureola mammaria ed in senso orizzontale (VII-IX spazio intercostale sinistro); alla spalla destra le lesioni sono come le altre; alla fronte, e precisamente tra il cuoio capelluto ed il margine frontale, si riscontrano diverse lesioni da punta (spine), arrossate, e tali lesioni si estendono a spruzzo verso la periferia, di colore rosso vivo, più o meno accentuato e con il passare dei giorni acquistano un colore rosso-bruno”.  (Ivi p. 71).

Anche le piaghe di Natuzza Evolo, come quelle di S. Gemma Galgani e di Padre Pio guariscono senza farmaci, ma non sono a fori passanti come quelle del santo Padre Cappuccino del Gargano e di Teresa Musco. Difatti, all’osservazione clinica del dott. Edgardo Monaco si presentano:”iconografie, quelle dei polsi, degli avambracci e delle ginocchia, le stimmate delle caviglie si presentano, invece,…come ferite ovalari da taglio penetranti, vive e recenti ma, inspiegabilmente, non sanguinanti, a margini netti, asciutti e detersi, tra i quali si affaccia e parzialmente si estroflette muscolo rosso vivo, che ben contrasta col cereo della cute del margini stesso, che non sono peraltro tumefatti o in stato di flogosi. Recepisco peraltro la inequivocabile constatazione di trovarmi dinnanzi a ferite fatte su un cadavere fresco in sala settoria di Anatomia Umana Normale. Ne si tratta di piaghe perché, queste, sono abitualmente occupate da tessuto di granulazione evolvendosi nella cicatrizzazione e altrettanto coperte da secreto suppurativo.

Le ferite di Natuzza sono di certo vere stigmate perché, come queste, indipendenti, per comparsa, evoluzioni ed esiti, dalle leggi ad esperienze acquisite nei testi di Anatomia Patologica e di Patologia e Clinica Chirurgica dalla scienza medica ufficiale”. (E. Monaco, Il cielo irrompe a Paravati, Ed Pellegrino, Cosenza 1998, p. 115). Il Venerdì Santo, di ogni anno, Natuzza è costretta a letto e cade in uno stato di estasi, durante il quale rivive i momenti della salita al Calvario (flagellazioni, coronazione di spine, piaghe alla ginocchia, parla con le persone che realmente assisteranno alla Passione di Gesù) e riceve anche un profondo colpo all’emitorace sinistro fino al cuore (la prima volta all’età di 25 anni) con comparsa di sangue rutilante. Queste ferite fisiche (testimonianza della mistica al dott. Molè) sono accompagnate da sintomatologia dolorosa e profonda e contemporaneamente da una gioia soprannaturale che invadendo l’anima la fa bruciare d’amore. “Tutto finisce con il sopraggiungere dell’ora della morte di Gesù, verso le 14.30 circa, momento in cui Natuzza ha uno svenimento, dal quale poi  lentamente si riprende”.

Alcune testimonianze di religiosi

Don Giovanni Capelluto, Parroco di Settingiano, Direttore Spirituale di Natuzza.

“Natuzza è una teologa meravigliosa, che parla soltanto con la sua umiltà, con la sua vita nascosta nel silenzio! Come per la Madonna, si potrebbe dire di lei: FECIT MIHI MAGNA QUI POTENS EST. Si può dire che è grande, ma non si può dire quanto è grande, la si può solo ammirare, guardare un tantino, e riempirsi della sua grazia”. ( V. Marinelli, op. cit., vol. 3, p. 296).

Don Giuseppe Tomasselli – Salesiano- Direttore Spirituale di Natuzza.

“Si, mentre la comunicavo, mi accorsi che aveva un bel po’ di sangue all’occhio, chiamai in sacrestia, dicendogli di far asciugare quella signora col monitoraggio delle ampolline, ma questo sacrista era anziano, ed era molto lento. Lei se ne accorse, che c’era sangue, e si asciugò il sangue con il suo fazzoletto, sul quale venne l’ostensorio con IHS e CI e la scritta VENITE AD ME OMNES” (Ivi, vol. 1, p. 299).

Padre Antonio Gallo

“Ma che vai imbrogliando il mondo tu con queste tue visioni, con questo sudore di sangue?”  - le dissi – “ Lei sorrise e mi rispose nel suo dialetto: Pare che io ci colpo”. Quel suo sorriso umile, quella risposta così sorridente e buona, semplice, mi convinsero della bontà della sua coscienza, della sua anima. Poi la confessai”. (Ivi, vol. 1, p. 318).

Alcune testimonianze di medici

Visitando i testi in nostro possesso presentiamo alcune prove sull’autenticità del fenomeno, proveniente da persone di fede quali il dott. Cortese, il dott. Umberto Carapi, il ricercatore Marinelli, il dott. E. Monaco.

Dottor Cortese – Venerdì Santo – 1973

Ecco quanto risulta dalle parole del dottor Cortese: “Sono giunto a casa di Natuzza, a Paravati, verso le 9,30 del mattino, e l’ho trovata a letto in uno stato di agitazione e di sofferenza. Sulla sua fronte e sul cuoio capelluto erano visibili delle lesioni a forma di cuneo, con la punta rivolta verso l’interno, sanguinanti, lesioni che facevano pensare alle ferite inferte sul capo di Gesù dalla corona di spine… Un po’ prima delle dieci ha incominciato a sussultare, rialzandosi sul letto e sobbalzando, come se venisse colpita con violenza. Questo fenomeno richiamava alla memoria la flagellazione di Gesù. Verso mezzogiorno una smorfia di disgusto di Natuzza, che ha ritirato la testa all’indietro come le fosse stato assaggiare qualcosa di disgustoso. Ho riferito ciò al passo del vangelo di Matteo 27,33. Giunti sul luogo detto Golgota, che significa luogo del cranio, gli diedero da bere del vino mischiato con fiele, ma assaggiandolo, non ne volle bere”. (Ivi, vol. 1, p. 102).

Il dott. Cortese resta molto “impressionato” dalla difficoltà respiratoria che Natuzza presenta da mezzogiorno fino alle quattordici e trenta (periodo che corrisponde all’incirca alla crocifissione di Gesù) paragonabile a quella dei crocifissi, i quali morivano dopo patimenti atroci di asfissia. Alcuni giorni dopo il dottor Cortese pose questa domanda a Natuzza: “Com’è la croce che Gesù ha portato al calvario? Simile a quella rappresentata nelle Chiese?” Natuzza rispose: “No, era come un tronco, un giogo; quando siamo giunti lassù, abbiamo trovato l’altra parte infissa al suolo”. (Ivi, vol. 1, p. 104). Per lo scienziato Marinelli questa risposta dimostra la partecipazione psicofisica della Evolo alla Passione di Cristo, con la visione delle varie fasi della via Crucis.

Dottor Umberto Corapi – Venerdì Santo 1977

Il dottor Umberto Corapi si reca a Paravati il Venerdì Santo del 1977 insieme al primario del reparto ortopedico dell’ospedale civile di Nicastro dottor Diego Menniti. Sono le undici e trenta e Natuzza è a letto. Egli è colpito dal pallore della Evolo, dal suo aspetto rivela una stanchezza “terribile pazzesca”, alla tassazione il polso è debole, tachicardico, paragonabile a quello di una persona, che ha subito una forte emorragia. Ne ricava la sensazione che da un momento all’altra possa succedere qualcosa di irreparabile. All’osservazione le piaghe dei polsi risultano essere in via di cicatrizzazione, solo un  polso è ancora sanguinante e in seguito ad un repentino movimento una goccia di sangue va sul muro e li’ disegna una croce di sei - sette centimetri (prima non c’era). Successivamente una goccia di sangue della tempia disegna in stampatello la frase: “Venite ad me omnes”. La composizione di questa frase avviene sotto gli occhi del dottor Corapiu ad una velocità superiore al naturale. L’attenzione del dottor Corapi si riversa successivamente su Natuzza, che è afflitta da sofferenze atroci e in particolar modo da un dolore alla spalla destra. Sia il dottor Corapi che il Menniti le esaminano la spalla e sono testimoni della progressione biologica di un’ematoma, che si forma sotto i loro occhi proprio come se un grosso peso gravasse sulla stessa.

Valerio Marinelli, Venerdì Santo 1987

Il Venerdì Santo del 1987 lo scienziato Valerio Marinelli con il Parroco di Paravati, Don Pasquale Barone e Padre Michele Cordiano sono a casa di Natuzza. Sono presenti i familiari della Evolo e le solite persone ammesse il Venerdì Santo. E’ l’una meno un quarto. Dall’osservazione attenta e particolareggiata del Marinelli si rivela quanto segue: L’aspetto sofferente e assente di Natuzza che è a letto, si agita, ha difficoltà respiratorie e le pulsazioni cardiache sono elevate; il suo raccoglimento al momento della Comunione, la partecipazione alle preghiere, prima con voce bassa poi solo con il movimento delle labbra, poi è avvolta come in un torpore; la presenza di alcuni segni emografici, che il Marinelli non riesce a decifrare per la posizione in cui si trova; una probabile estasi con assenza di luci e splendori particolari del volto; la supposizione che le scene viste da Natuzza riguardino Gesù crocifisso; l’aumento della sofferenza fino ad avere degli spasmi in tutto il corpo. “Incarna le gambe e il tronco, come se fosse realmente crocifissa… Emettendo un grande gemito premendosi fortemente il petto, Emettendo un grande gemito premendosi fortemente il petto, come se avesse ricevuto una lanciata. La sofferenza è impressionante, il suo volto, è completamente trasformato, si altera, si fa piccolo, apre la bocca in un modo curioso come se volesse respirare ma non ce la fa, poi ritrae di scatto le labbra ed il capo come se le accostassero qualcosa di amaro. (l’aceto del Vangelo). Questo  movimento lo ripete un’altra volta più tardi. E’ svenuta alle due meno cinque”. (Ivi, vol. 3, p. 51).


Qualcosa si inizia a capire di Massimo Viglione - 22/02/2011 – da http://www.libertaepersona.org

Tutti stiamo osservando con attenzione quanto sta avvenendo in questi giorni nel mondo islamico. Anche e anzitutto in quegli Stati ritenuti più "laici", come Egitto, Tunisia, Libia. Sicuramente però ben pochi comprendono la portata storica e sovversiva degli eventi e l'immenso rischio che a loro è legato.

Pochi comprendono il fatto che fra pochi anni tutto sarà mutato nel quardo geopolitico mediterraneo e mondiale: nulla del genere si è mai visto nella storia dell'Islam finora. Alcune anime candide guardano con favore all'evolversi degli eventi, i soliti ottimisti progressisti (in gran parte fino a poco tempo fa grandi ammiratori di Gheddafi), che intravedono un roseo futuro di democrazia e libertà (chissà perché però la stessa esigenza di democrazia e diritti civili non sentono più quando parlano della Cina...). Altri invece, diciamo i realisti consapevoli, sanno bene dove quasi sicuramente tutto ciò andrà a condurre, vale a dire all'affermazione di regimi islamisti integralisti, ulteriore minaccia costante per tutto l'Occidente, sempre più sottoposto ormai al concreto rischio dell'invasione generale (oltre che del terrorismo).

Per quei progressisti ottimisti che ora stanno sorridendo ironici, una notizia di stamane può essere significativa: per la prima volta dal 1979, cioè dall'anno della rivoluzione islamista komheinista, l'Egitto ha dato il via libera per il Canale di Suez a navi da guerra iraniane!

Non avveniva appunto da 32 anni, sia per non urtare la pace con Israele, sia per i cattivi rapporti sempre esistiti fra il governo di Sadat e Mubarak e il regime degli Ayatollah. Ora, pochi giorni dopo la caduta di Mubarak, in un Egitto che dovrebbe essere sull'orlo della guerra civile e comunque tutt'altro che pacificato, di cui da qualche giorno non si parla più, dove tutti si dimostrano desiderosi di sventare il pericolo della presa del potere da parte dei fratelli musulmani, dove non si sa più nulla praticamente del governo in carica, cosa si va a decidere dinanzi alla montagna di problemi interni da risolvere (e non si sa bene neanche da parte di chi)? Di provocare Israele e riaprire all'Iran lo Stretto di Suez.

Altro che sorrisi ironici dei progressisti ottimisti: questo è solo l'antipasto di una drammatica abbuffata, che nei prossimi mesi e anni toglierà il sorriso a tutti gli occidentali, ottimisti e realisti, laici e cattolici, anti-islamisti e, chissà, forse anche alle quinte colonne sempre presenti nella nostra società suicida.


IN DIFESA DELLA VITA - UNA LETTERA DELL’ON. OLIMPIA TARZIA – da http://www.riscossacristiana.it – Premessa: è con grande piacere che pubblichiamo questa lettera pervenuta dall’on. Olimpia Tarzia, una politica da sempre in prima linea per la difesa della Vita.

Anche se l’on. Tarzia, come consigliere regionale del Lazio, ha elaborato un progetto di legge regionale per la riforma dei consultori, tuttavia quanto ci espone non interessa solo i lettori laziali. Se infatti delle azioni specifiche vengono proposte per il Lazio (tra cui l’adesione al Movimento PER Politica Etica Responsabilità), tuttavia lo spirito che anima l’on.Tarzia è di esempio per tutti noi, soprattutto per quanti sembrano essersi arresi a una folle realtà che gronda di sangue innocente.

In un altro articolo di Riscossa Cristiana diamo brevi cenni (al più presto pubblicheremo gli approfondimenti) su altre iniziative, soprattutto lombarde. Qualsiasi sia la Regione, l’impegno è lo stesso: la lotta per la Vita, la lotta contro una “cultura” di morte che ammorba con i suoi miasmi i cuori e le coscienze.

SEI MILIONI DI VITTIME INNOCENTI PESANO SULLA COSCIENZA DELL’ITALIA. SE AMIAMO VERAMENTE LA NOSTRA PATRIA, INVECE DI ROTOLARCI NELLA RETORICA DEI 150 ANNI, FACCIAMO DI TUTTO PER EVITARE ALTRI OMICIDI. PERCHE’ L’ABORTO E’ QUESTO: UN CRIMINE ABOMINEVOLE, IL PIU’ TURPE TRA GLI OMCIDI, PERCHE’ COLPISCE UN INNOCENTE TOTALMENTE INDIFESO.

Ricordiamo che di recente all’on. Tarzia fu impedito, ad opera dei soliti nazistelli rossi, di tenere un convegno. Riscossa Cristiana ha riportato questi fatti in un articolo che potete leggere cliccando qui. Passiamo ora la parola all’on. Tarzia.

PD



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Carissima/o,

desidero aggiornarti riguardo al percorso della mia proposta di legge di riforma dei consultori familiari, ringraziandoti ancora del tuo sostegno.

Dopo le sollecitazioni del Santo Padre del mese scorso, (clicca per visualizzare il discorso) con le quali ribadiva il preoccupante numero di aborti nel Lazio ed esortava le  Istituzioni ad impegnarsi, con esplicito riferimento al ruolo dei consultori familiari, ci siamo incontrati con la Presidente Polverini e tutti i capigruppo di maggioranza del Consiglio Regionale per individuare un percorso di accelerazione dell’iter della proposta di legge.

Intanto altre Regioni stanno presentando analogo progetto. Ti manderò aggiornamenti in merito.

Colgo l’occasione per parlarti di un importante progetto, nella certezza  di averti, anche in questo impegno, al mio fianco, poiché la mia legge sui consultori, cui hai dato il tuo sostegno, ha assunto, sempre più,  caratteristiche che vanno al di là di un disegno di legge, perché parte di una visione politica a servizio della famiglia e della vita, che vede nella difesa e promozione dei principi non negoziabili le fondamenta e le finalità di una politica a servizio del bene comune.

Come saprai, ho dato vita ad un nuovo soggetto politico: il Movimento PER Politica Etica Responsabilità, fondato proprio sui principi non negoziabili, di cui puoi trovare notizie sul sito www.movimentoper.it .

Il PER, se pur ufficialmente costituito di recente, ha radici lontane, ha alle sue spalle la credibilità di una storia, l’esperienza e l’impegno, professionale e di volontariato, di migliaia di cittadini, famiglie, associazioni, movimenti: cittadini che credono che si possa realizzare il bene comune solo fondandolo sui valori non negoziabili e intendono per questo mettersi in gioco in prima persona.

Il momento è particolarmente difficile per la politica italiana: sfiducia e disorientamento rischiano di prendere il sopravvento, con l’effetto di allontanare sempre più le persone dalla volontà di partecipazione, di cittadinanza, di impegno.

Nell’establishment della dirigenza politica, dal livello nazionale a quello locale, si risvegliano sopiti contrasti, riemergono vecchi rancori, esplodono le contraddizioni di alleanze dal connubio impossibile, saltano  regole e punti di riferimento, in una sorta di “tutti contro tutti”.

In questo quadro desolante e preoccupante, la parola più usata è “contro”. Le iniziative, le mobilitazioni,  le alleanze vengono pensate e realizzate “contro” qualcuno o qualcosa. Si infuoca strumentalmente e utilitaristicamente l’opinione pubblica, fino a far salire la protesta, fino a scendere in piazza, non per rappresentare i propri diritti o le proprie aspettative, ma, contro, comunque e ovunque.

Ciò non può portare a nulla di buono.

Anche le improbabili alleanze, le neo formazioni che mettono insieme leader e partiti lontani mille miglia per storia, identità, contenuti programmatici, prese di posizione sui grandi temi, vengono pensate e costruite contro, senza una comune progettualità, senza una visione unitaria delle soluzioni, senza unicità di proposte politiche. Le conseguenze, oltre a sortire gli effetti sopracitati nei cittadini, ricadono anche all’interno di maggioranze e minoranze istituzionali, provocando in molti amministratori locali confusione, se non profondo disagio.

Le adesioni al Movimento PER crescono, di giorno in giorno, da tutta Italia, vorrei tanto volessi condividere con me questo grande progetto che già sta seminando, in tanti, la speranza che si possa ancora credere in una politica tesa al bene comune, coraggiosa, autentica, coerente.

Nel Movimento ferve il piano organizzativo e progettuale. In questi giorni stiamo ultimando la definizione delle aree tematiche, degli organi e degli aspetti organizzativi. Il primo obiettivo è quello di costituire i Circoli, territoriali o tematici o on-line, costituiti da un numero di persone che va da 7 a 15.

Stiamo definendo anche i componenti dei  Dipartimenti nazionali, che costituiscono il think tank, una sorta di “serbatoio del pensiero pre-politico”, costituito da esperti di grande professionalità nelle varie discipline, che si occuperanno dello studio e delle  elaborazioni dei fondamenti culturali del progetto politico.

Conto su di te, sul tuo coraggio, sulla tua determinazione, sulla tua volontà di partecipazione, per dare seguito e rendere ancora più concreto ed efficace il tuo sostegno, per dare voce a chi non ha voce, per testimoniare pubblicamente una fede amica dell’intelligenza, capace di risvegliare le coscienze e di rendere concrete, nella vita pubblica e politica, le innumerevoli istanze a difesa della vita, della famiglia, dei più piccoli e dei più poveri, così profondamente radicate nel cuore di ogni uomo, ma troppo spesso assopite, confuse, scoraggiate.


Abbiamo acceso un fiammifero in una stanza buia e, come sempre accade, laddove c’è luce e calore nasce la vita: a noi il compito di custodirla e di farla crescere.

Un caro saluto

Il Presidente

On. Olimpia Tarzia


Prepararsi all'emergenza di Riccardo Cascioli, 23-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Arrivano, arrivano! Finalmente in Europa ci si comincia a rendere conto dell’importanza di quanto sta avvenendo sulla sponda sud del Mediterraneo, non fosse altro per il rischio di un arrivo imminente di ondate di profughi sulle coste italiane.

Non è automatico che ciò avverrà; come sempre dipenderà da molti fattori, ma la situazione in Libia e Nordafrica è tale da avere tutte le potenzialità per generare un disastro umanitario. Secondo il ministero dell’Interno potrebbero arrivare fino a 2-300mila persone, non solo dal Nordafrica. Non bisogna dimenticare infatti che la Libia è la porta di uscita dal Continente Nero per chiunque voglia tentare di attraversare il Mediterraneo alla ricerca di un futuro migliore. Secondo l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (Acnur) in Libia ci sono già 8mila rifugiati registrati arrivati dall’Africa nera, a cui vanno aggiunti altri 3mila con richieste di asilo ancora pendenti da Sudan, Iraq, Eritrea, Somalia, Ciad e Territori palestinesi.

Peraltro le prime reazioni lasciano chiaramente intendere quale sarà il leit motiv dei prossimi giorni: l’Italia chiede il coinvolgimento degli altri paesi europei, da Bruxelles si dicono pronti a fornire aiuti ma i profughi sono affari dell’Italia; e l’Acnur invita a non respingere quanti fuggono dal conflitto in corso a Tripoli, mostrando spirito umanitario.

Si tratta di un balletto già visto che non promette bene e che potrebbe aggravare e rendere ingovernabile l’emergenza, con conseguenze gravi sia per i profughi sia per la popolazione italiana. Non bisogna infatti dimenticare che davanti a qualsiasi movimento migratorio è necessario conciliare l’accoglienza e il soccorso del migrante con una politica di gestione dei flussi che tenga conto anche della situazione della popolazione già residente. Criteri che valgono anche in una situazione straordinaria come quella attuale. In altre parole: il dovere di soccorrere e dare temporanea ospitalità ai profughi che arrivano con i barconi non si può tradurre in un diritto automatico a restare sul suolo italiano o europeo. Ma a decidere le modalità con cui attuare questi criteri deve essere la politica e saranno decisivi questi primi giorni di crisi, perché segnali sbagliati o contraddittori in questa fase possono favorire situazioni che diventerebbero rapidamente ingestibili.

Per questo sono necessarie due azioni immediate: anzitutto la convocazione urgente di un vertice dei capi di governo europei. E’ indispensabile una valutazione comune della rivoluzione in atto in Nordafrica e Medio Oriente, così come una posizione unitaria che dia forza ai necessari interventi politici ed economici che aiutino a mitigare e superare le conseguenze dei disordini in atto, di cui l’emigrazione è una conseguenza. Purtroppo a diverse settimane dall’inizio delle manifestazioni in Tunisia ed Egitto, l’Unione Europea appare ancora incapace di una iniziativa qualsiasi, e il tempo perduto va recuperato in fretta.

Secondo, nella prospettiva di un massiccio arrivo di profughi sulle coste italiane è importante che sia subito attivato un tavolo tecnico tra le autorità italiane, europee e l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati, per stabilire le necessarie misure per fare fronte all’eventuale emergenza. Non si tratta del normale flusso migratorio, ma di una situazione straordinaria: l’Acnur non può limitarsi a generici appelli all’accoglienza o a sterili critiche sugli interventi. Come in tutte le altre parti del mondo dove situazioni del genere si sono create, deve invece essere parte di un comune sforzo per gestire la situazione.


La bandiera dell'educazione di Roberto Colombo, mercoledì 23 febbraio 2011, il sussidiario.net

La storia del pensiero occidentale ci ha consegnato un’idea, che alcuni tra noi hanno appreso sin dai banchi del liceo: l’Essere, la perfezione ontologica, è uno e indivisibile, e tra gli attributi delle realtà terrene, storiche, quello dell’unità - per quanto fragile, contingente possa apparire - è sempre apprezzabile, perché partecipa, secondo il suo ordine e grado, della consistenza ultima delle cose. L’unità è desiderabile in tutto, perché fondamento di ogni altra qualità e quantità e germe di armonia, pace, bellezza e fecondità.

L’unità della persona (la “frattura dell’io” o schizofrenia è una patologia devastante per il soggetto), l’unità della famiglia, di un gruppo di amici o di soci, di un’azienda, di una comunità o di un popolo è sempre un bene: chi ne teorizza o pratica la fine lavora per distruggere, non per edificare. Così è anche di una nazione, nella misura in cui essa riassume e serve, storicamente e geograficamente, la vita personale e sociale di generazioni di uomini e donne che ad essa appartengono per nascita o per adozione. «Ogni regno diviso in se stesso va in rovina» (Lc 11, 17), e le vicende di diverse regioni del mondo, anche recenti, rendono testimonianza a questa frase del Vangelo.

La ricorrenza dei 150 anni dell’unità d’Italia, se divorata da una retorica celebrativa che esalta i frutti dell’albero mentre ne recide le radici, o bruciata in un’astiosa contrapposizione politica che trasforma la storia di ieri in un campo di battaglia di oggi, è un’occasione perduta per tutti. Per i più giovani, che sono chiamati a guadagnare, a far diventare un proprio giudizio di ragione, ciò che hanno ricevuto dai loro padri e dai loro maestri e portano sulle spalle, nello zaino con il quale ognuno affronta la vita personale e sociale. Ma anche per noi. L’unità nazionale non l’hanno costruita loro e neppure noi, che apparteniamo alla generazione precedente: ci è stata data, e con essa dobbiamo paragonarci tutti i giorni, dal linguaggio all’arte, dalla scuola alla sanità, dai trasporti alla finanza, dal lavoro alle pensioni. Come tutta la realtà, essa c’è anche se non è uscita dalle nostre mani e dalla nostra mente, e ci sfida ogni momento, provocando la ragione ad abbracciarla, a “com-prenderla” secondo tutta la sua ampiezza e profondità.
Qual è, dunque, la sfida che l’unità del nostro Paese lancia? Anzitutto che l’unità è un bene per ciascuno e per tutti, in qualunque dimensione della vita essa si manifesti. Non vi è piega della realtà nella quale e per la quale la divisione, la spaccatura sia positiva (in alcune circostanze, può venire subita, tollerata, mai desiderata). Il nostro cuore è fatto per l’unità, non per la frammentazione, per il tutto, non per le parti. Un bene per guadagnare il quale uomini e donne hanno sacrificato la loro vita per la famiglia, i figli, gli amici, il lavoro, la comunità, la società o la patria. Un ideale non astratto, ma storico, concreto, che ha inciso nella carne e nel sangue (quanti canti d’amore, popolari o dei soldati lo evocano!). Non si può comprendere l’unità, a qualunque livello essa sia riconosciuta e custodita senza un ideale. Non una morta retorica del passato, ma un ideale vivo nel presente può far comprendere oggi il bene dell’unità.

La difficoltà nel proporre e nell’accogliere un momento di memoria dedicato all’unità d’Italia nasce dall’impossibilità ad immedesimarsi in un ideale che oggi non è più vissuto e affermato come un bene: l’unità di un popolo, che ha le sue radici nell’unità della persona, dell’“io”, nella coscienza di appartenere tutti ad una storia che non abbiamo costruito noi, ma che ci precede, ci plasma e ci trascende. Una storia che il senso religioso degli italiani - come quello dei cittadini di tutti i Paesi europei e di numerosi extraeuropei - ha vissuto nella forma compiuta dell’avvenimento cristiano, del cristianesimo di cui è tessuta la cultura, l’operosità, l’arte, la vita sociale e tutta la storia dell’Occidente. Resta ancora da essere approfondita una documentata ricognizione storica del ruolo del cattolicesimo e della Chiesa nell’unità d’Italia, che una lettura superficiale e pregiudiziale ha voluto solo come negativo o, tutt’al più, passivo, dimenticando il decisivo contributo della dottrina sociale della Chiesa e delle grandi figure di laici cattolici nella formazione di una coscienza e di una cultura del bene comune, senza la quale non vi può essere autentica e stabile unità di popolo e di nazione.
L’unità è qualcosa che precede ogni intenzione e azione per affermarla e costruirla, in qualunque forma dell’esistenza degli uomini essa si manifesti. È un dato originario e originante, non derivato o secondario. Per questo occorre riconoscerla nella sua radice per poterla coltivare nella pianta. E come ogni aspetto della realtà - che deve essere “riconquistata” ogni mattina quando ci si sveglia e si spalancano gli occhi sul mondo - richiede un’educazione, un’introduzione o una “re-introduzione” ad essa, senza la quale ciò che sembrava essere acquisito è invece andato perduto.

Chi si scandalizza del fatto che molti ragazzi e i giovani sembrano disinteressati o infastiditi alla sola idea che si parli di storia e di unità d’Italia anche al di fuori dei libri e dei banchi di scuola, sembra dimenticare che l’emergenza più grande che la “questione giovanile” pone agli adulti e a tutta la società è quella educativa, che riassume in sé ogni altra urgenza della prima stagione della vita. Senza educazione non c’è maturità di coscienza individuale e di popolo, ancor meno quella di nazione, che delle prime è l’espressione storicamente più formale e istituzionale.

Alcuni giorni fa, commentano sulle colonne de La Stampa l’espressione del Presidente Napolitano che occorre una «riflessione seria e non acritica» su «tutto quel che ci unisce», Marco Rossi-Doria scrive che «è bene partire dalla scuola». Al posto di occuparci d’altro, se vogliamo inscrivere i 150 anni dell’unità d’Italia in uno sguardo politico prospettico e non solo retrospettivo, «faremmo bene tutti a soffermarci di più e meglio» sull’educazione, famiglie e scuola in testa, ricordando che «dai tempi di Cavour, i politici savi dell’Italia unita, il movimento sindacale, gli imprenditori, il pensiero meridionalista hanno saputo superare divisioni, rigidità e interessi di parte quando si sono occupati di queste cose. Con spirito rivolto alla comunità nazionale e a quella locale, in modo concreto, evitando sprechi e concentrandosi sui risultati. È ora di ricominciare».

Sì, è davvero ora di abbandonare ciò che divide per ripartire da ciò che unisce, quella unità che precede tutti e tutto e che non ci possiamo dare da soli, ma solo riconoscere come un fatto, il frutto di un avvenimento storico, senza la quale non è possibile educare. E senza educazione non c’è presente né futuro per l’Italia, ma solo passato.
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J'ACCUSE/ Le tre menzogne di Rodotà e del "partito dell’eutanasia" di Alberto Gambino - mercoledì 23 febbraio 2011 – il sussidiario.net

L’appello del gruppo di esponenti della cosiddetta società civile, capitanati dai professori Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelski, giuristi fini ma partigiani, ha trovato da ultimo eco nelle parole di Saviano che ha così plasticamente sintetizzato la questione: “il diritto a scegliere sulla propria fine vita, serve a garantire che all’interno di una legge ognuno trovi la sua strada”. È la consacrazione di un ruolo che al diritto mai era stato assegnato: essere garante della volontà individuale, qualunque essa sia.

Ma andiamo con ordine. Il rimprovero fondamentale che i paladini del c.d. diritto di scelta muovono al disegno di legge sulle direttive anticipate di trattamento, pendente alla Camera dei deputati, ruota attorno a tre postulati: che con l’approvazione di questa legge ciascun cittadino perderebbe il proprio diritto all’autodeterminazione; che è contraddittorio ritenere la vita quale bene indisponibile essendo previsto il diritto costituzionale al rifiuto delle cure; che il disegno di legge prevede  l’alimentazione e l’idratazione forzate in disprezzo dell’art. 32 della Costituzione.

Le tre obiezioni mirano ad affermare un assioma, non nuovo al dibattito pubblico sul fine vita, che ritiene come la libertà individuale si debba sempre tradurre in vere proprie pretese giuridiche che obbligano l’ordinamento a conformarsi a esse. Non si coglie, in altri termini, la distinzione tra libertà e diritto positivo, ius positum, regola cioè posta dallo Stato per disciplinare situazioni sociali facendole emergere dall’indifferenza normativa. Mentre la libertà individuale gioca il suo ruolo sul piano morale ed è lasciata all'agire del singolo consociato, quando si entra sul piano del diritto è l'ordinamento stesso a dare rilevanza a interessi che assumono il rango di pretese giuridiche, distinguendoli da quegli interessi, non giuridificati, che rimangono nell'alveo della libertà.

Ora il caso della volontà-libertà di determinare scelte di fine vita non ha attualmente nel nostro ordinamento la portata di "pretesa giuridica", ma cozza contro disposizioni di legge a tutela della vita umana, con la conseguenza che se qualcuno oggi ponesse fine a un'esistenza umana per assecondare il volere del malato incorrerebbe nella commissione di reati come l’omicidio del consenziente o il suicidio assistito. Non esiste dunque allo stato della legislazione italiana un diritto assoluto all’autodeterminazione, che perciò non può ritenersi prevaricato da un ddl in via di approvazione.

L'idea sottesa all’assioma criticato è con tutta evidenza che il nostro ordinamento debba sempre ritenere "assoluta" la volontà dei consociati, salvo che questa non si scontri con altre libertà, e che giammai possa ritenersi prevalente un valore collettivo in contrasto con tale volontà. Ma non è così. Un esempio meno pregno di conflittualità è chiarificatore: anche se un dipendente volesse lavorare ventiquattro ore al giorno ciò non è consentito dall'ordinamento in quanto va contro la dignità e l'integrità fisica della persona.

Anche la critica alla contraddizione tra vita quale bene indisponibile e diritto - ma più correttamente “libertà” - di rifiuto delle cure sconta la stessa impostazione. L'espressione "indisponibile" per il diritto significa che "non si può trasferire" e non certo che non si può esercitare personalmente quel diritto. Infatti i c.d. diritti di libertà sono tali solo se esercitati personalmente, se si cedessero ad altri smarrirebbero la loro ragion d’essere. Si pensi alla libertà di pensiero: potrei forse spogliarmene e trasmetterla a un altro?

Proprio con riferimento al rifiuto di cura, la giurisprudenza di legittimità italiana non è rappresentata solo dallo sporadico caso Englaro, ma, in maniera più robusta, afferma che la validità di un consenso preventivo a un trattamento sanitario è esclusa in assenza della doverosa, completa, analitica informazione sul trattamento stesso, e, d’altro canto, l’efficacia di uno speculare dissenso "ex ante", privo di qualsiasi informazione medico terapeutica “deve ritenersi altrettanto impredicabile sia in astratto che in concreto, qualora il paziente, in stato di incoscienza, non sia in condizioni di manifestarlo pienamente'' (Corte di cassazione 15 settembre 2008, n. 23676, dunque successiva alla decisione sul caso Englaro, datata 2007). Cosa che evidentemente non si può liberamente e consapevolmente fare prima del verificarsi del trauma e dell’informazione sulle ipotetiche terapie, sempre legate alla situazione contingente e allo stato fisiologico del paziente.

Si tratta di quelle che la giurisprudenza distingue tra situazioni di “giudizio”, scelte libere e consapevoli del paziente davanti al trauma e alle sue possibili cure, e situazioni di “precomprensione”, in cui si simula cosa avrebbe effettivamente voluto il paziente caduto in stato di incoscienza se avesse saputo di trovarsi davanti a un certo evento traumatico e a certe correlate terapie. Secondo questa giurisprudenza di legittimità, la prima situazione è legittima, mentre la seconda - in assenza di una legge sulle direttive anticipate di trattamento - non è percorribile e dunque non può obbligare i medici a dare seguito a scelte presunte del paziente in ordine a ipotetici rifiuti di cure.

In questi casi, dunque, prevalendo lo stato di necessità, davanti a un ricovero urgente per una vicenda traumatica, il medico deve intervenire. Ed è appunto questo il bilanciamento che l’ordinamento opera tra vita quale bene giuridico in sé e libertà di rifiutare le cure. Un ddl che si instrada su tale solco non può dunque definirsi in contraddizione con il dettato costituzionale, essendo piuttosto in piena armonia con quanto il sistema giuridico italiano già indica.

Non è vero, infine, che il ddl imponga autoritariamente l’obbligo all’alimentazione e alla idratazione forzate in spregio all’art. 32 della Costituzione. Come detto, infatti, è oggi del tutto legittimo, anzi doveroso, in caso d’urgenza attivare protocolli che prevedono il sostentamento parenterale. Una volta attivato, ove l'organismo di un paziente incosciente sia in grado di assorbire i liquidi vitali, l’interruzione del presidio altro non sarebbe che un modo per provocare la morte di un essere umano. Ciò è quanto avvenuto nella vicenda Englaro, il cui esito è stato però disegnato da una sentenza dei giudici e non da una scelta ordinamentale.

Si tratta ora di riconsegnare al Parlamento la prerogativa costituzionale di disciplinare una questione di forte impatto sociale, come le scelte di fine vita, disinnescando l’incedere di altre possibili decisioni giurisprudenziali di stampo creativo. Soluzione evidentemente avversata da chi non condivide la possibile scelta legislativa e auspica che a colmare il vuoto sia proprio la giurisprudenza, che assumerebbe così il ruolo improprio e non conforme alle funzioni costituzionali ad essa assegnata di dettare la disciplina di vicende sociali che postulano invece l’intervento del legislatore.

Del resto, per quanto la vulgata giuridico mediatica, rilanciata dall’appello di Repubblica e rafforzata dalle parole di Saviano, voglia far intendere il contrario, l’art 32 della Costituzione non si esprime affatto nel senso di un diritto assoluto all’interruzione della cura (dunque esprimibile ora per allora o, addirittura, per interposta persona), ma in modo assai diverso: "nessuno può essere obbligato a un trattamento sanitario"; il che appunto significa che a nessuno può essere imposto coattivamente un trattamento non richiesto, fuori evidentemente dai casi di urgenza. Di qui a dire che la legge sul fine vita deve garantire che “ognuno trovi la sua strada” davvero ce ne corre.

Come se il paziente avesse un diritto a chiedere una compartecipazione attiva di personale e strutture sanitarie ad attuare procedure autodeterministiche, che al dunque sarebbero anche eutanasiche. Del resto i Costituenti quando scrissero l'art. 32 avevano davanti agli occhi vaccinazioni e terapie sperimentali imposte dall'autorità pubblica e non certo il rapporto individuale medico-paziente, come vorrebbero far intendere i nuovi interpreti del dettato costituzionale.


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IL GRINTA/ Con i Coen torna il western da Oscar che vuol parlare di giustizia di Maria Luisa Bellucci, mercoledì 23 febbraio 2011, il sussidiario.net

Pungente, duro, spietato. Questo è Il Grinta, ultimo exploit cinematografico dei cinici fratelli Coen. Che sfruttano la scia rassicurante di un genere classico come il western per stupire con la carica innovativa della loro tutta personale idea del mondo e dell’uomo. Con una provocazione: aprire le danze con una citazione biblica per conferire un senso di indiscutibile verità al loro racconto.

Non scardinano le regole, i Coen. Abbracciano la tradizione, rispettandola negli elementi essenziali che ne codificano la struttura. La circolarità del racconto, la corsa tra inseguiti e inseguitori, il saloon, cuore pulsante di una giustizia che deve essere ottenuta. Pur con evidenti innovazioni. Un prologo inusuale, una figura femminile che non ha bisogno di essere difesa, un genere che rispecchia il carattere dei tempi moderni. Alla frattura, preferiscono la reinterpretazione del senso. Perché la storia resta la stessa dell’illustre precedente, firmato da Henry Hathaway nel 1969, e che valse al “grinta” John Wayne l’unico Oscar della sua carriera.

A cambiare è il significato, complice un’ottica spietata e moderna che si manifesta attraverso le azioni decise e senza ritorno di una donna che è poco più di una bambina. La tenace quattordicenne Mattie Ross è risoluta nel voler assicurare alla legge Tom Chaney, assassino del padre, e per riuscire nell’impresa assolda il vecchio e ubriacone sceriffo Rooster Cogburn - un Jeff Bridges candidato all’Oscar - e il ranger texano LaBoeuf (Matt Damon).

Mentre, però, nel film del 1969 la fragilità della sua adolescenza trovava giusta protezione in Cogburn e LaBoeuf, nella pellicola dei Coen, Mattie, armi in pugno, si trasforma nel simbolo di una riuscita giustizia personale. Lei, che avrebbe solo desiderato condurre Chaney di fronte al giudice per non lasciare impunita l’uccisione del padre, si erge essa stessa a giudice di vita o di morte. Cos’è questa, allora? Semplice giustizia privata o vendetta? E qual è, se esiste, il confine che separa questi due mondi?
Forse non c’è un limite netto. Nella pellicola di Hathaway, Mattie otteneva il suo scopo senza macchiarsi di nessuna colpa e il classico finale western, con il “giustiziere” di nome Grinta che si allontana da lei a cavallo sventolando il cappello, chiude il racconto con un happy ending. Qui tutto è diverso. Amaro e rassegnato. Nell’ultima scena, Mattie, ormai adulta, si allontana, da sola e di spalle, verso il proprio destino. Non si volta mai indietro. Non lo fa ora, come non lo aveva fatto, anni prima, dopo aver premuto il grilletto. Va avanti, con coerenza e grande dignità, consapevole che quell’attimo abbia stabilito il senso di ogni sua perdita.

Perché Il Grinta non è semplicemente un film sulla necessità del farsi giustizia. I Coen vanno oltre. Ci parlano di perdita intesa come morte, ma soprattutto come privazione di qualche cosa, prezzo da pagare per aver agito a propria difesa. Quella di Mattie è una perdita spirituale. È sola, dopo la scomparsa del padre e per la lontananza dei sue “angeli custodi”. Ma anche fisica, e il suo corpo ne porta segni tangibili. Così evidenti, commoventi e riconoscibili nell’ultima immagine del film.

Mattie è tutti noi, giovani uomini e donne di un mondo ferito da crimini lasciati impuniti. “Si deve pagare per tutto in questo mondo. Niente è gratuito, tranne la Grazia di Dio”. Queste sue parole risuonano dure, consapevoli, mai disperate, corollario di un distacco che non è emotivo, ma indispensabile per procedere senza rimpianti. Per trovare giustizia, in qualche modo. Per offrirsi come “custodi” di un passato paterno colpito a morte e ora è un bagaglio da portarsi dietro, da proteggere, da ricordare per andare avanti. Come quelle due bare che - una all’inizio del film, l’altra alla fine - vengono chiuse e caricate da Mattie sul treno, destinazione casa.

Questo ci dice che il circolo, come in ogni western che si rispetti, è stato chiuso. Giustizia è stata fatta. Ma a che prezzo? Alla coscienza di ognuno di noi la risposta.
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Avvenire.it, 23 febbraio 2011 - La tragica e bellissima forza dei fatti di Nord Africa - Libertà, gridano. Che sveglino la nostra di Davide Rondoni

Libertà, gridano. E ne parla il web, ne parlano i nostri giornali. Le folle che stanno sfidando regimi e bombe, decennali assetti di potere, interrogano la nostra libertà. Si sottopongono a pericoli e violenze in tutto il Maghreb e in parte del mondo arabo per il pane e per la libertà. Vorrei che prima di tutte le possibili analisi politiche, del timore per scenari futuri, delle accuse alla speculazione sui prodotti primari, e prima della presa di coscienza delle conseguenze che specialmente in Italia si avranno, arrivasse, dritta come una spada, la grande questione: la libertà muove gli uomini. Anche là dove sembra impossibile.

Certo, queste sollevazioni chiedono pane insieme alla libertà. Situazioni divenuta intollerabili dal punto di vista sociale hanno acceso gli animi. Ma come sempre accade, la mancanza e la necessità di un bene particolare (il pane) ha fatto vedere in modo più lampante la mancanza di un bene più grande (la libertà). L’uomo è fatto così. Vuole sempre un bene più grande. La sua fame è infinita. Non di solo pane vive.

Ogni faccenda che riguarda la libertà è complicata. Perché la libertà è la cosa più profonda, più «cara» come dice Dante, più intima di un uomo. La sua parte inespugnabile. Può solo venderla o barattarla lui. Ma nessuno può spegnergliela. Però la libertà non si muove, non cerca la propria soddisfazione in una specie di ambiente puro. È sempre esposta al torbido, al parziale, all’interesse, alle passioni. Non esiste libertà in azione allo stato puro, se non nei santi. E anche i movimenti di libertà che si stanno esprimendo in queste dure giornate non sono "limpidi". Sarebbe stupido pretenderlo. Ma quando un uomo si muove per la libertà, interroga sempre tutti noi: tu per cosa ti stai muovendo? Noi, per cosa ci stiamo muovendo? E, anzitutto, ci stiamo muovendo? Pare che in molte zone della nostra società regni l’immobilità. Non solo nel senso della mancanza di cambiamenti significativi – pur di fronte a una crisi che se non il pane in molti casi ha tolto il companatico o anche il lavoro – ma nel senso di una assunzione di responsabilità, di sfida, di senso del rischio.

I giovani del Maghreb stanno rischiando molto per avere più libertà. E noi? I nostri giovani? Se in quei contesti il desiderio di libertà può spingere ad andare in piazza, qui a cosa ci sta spingendo? Le manifestazioni dei mesi scorsi nelle piazze italiane non hanno certo la tragica elementare bellissima forza di quelle in corso. Siamo obbligati ancora una volta a domandarci, noi che la libertà pensavamo di sapere cosa è, se ne abbiamo davvero una idea. Perché quei ragazzi che rischiando parecchio sono andati contro i loro regimi, lo han fatto perché li sentivano contrari alla loro aspirata realizzazione. La libertà non è la conquista di uno spazio vuoto, dove fare quel che si vuole – come appare spesso predicata qui da maestri del vuoto – ma la tensione a beni, a incontri che soddisfino il nostro essere uomini.

La libertà pura e impura, bellissima e torbida è ricerca di una soddisfazione. Un uomo che si ritiene materialmente o esistenzialmente "soddisfatto" non manifesterà nessuna voglia di cambiamento. Protesterà per questioni secondarie. Per interesse. Ma non sarà un uomo in movimento. Non avrà la durezza, la dolcezza, la tenacia di quel che vediamo in questi giorni, tra i fumi delle bombe e delle nostre analisi, spesso messe avanti per non lasciarci né ferire né interrogare davvero.


La legge sul testamento biologico è un clamoroso autogol - 23/02/2011 - Eutanasia - di Alessandro Gnocchi & Mario Palmaro, da http://www.libertaepersona.org

In splendida solitudine, come sempre: non si ringrazierà mai abbastanza Giuliano Ferrara per quanto ha scritto a proposito della legge sul testamento biologico smarcandosi dai contendenti di una diatriba fatta di paralogismi. Il corretto uso di ragione, si sa, oggi porta a esser soli, o quasi. Soli, ma ragionevoli, e quindi illuminanti. Ferrara ha ragione da vendere perché la legge sul testamento biologico è un clamoroso autogol, un classico esempio di eterogenesi dei fini. La vogliono i nemici dell’eutanasia e dell’abbandono terapeutico, ma approvandola faranno il gioco proprio della trasversale “compagnia della buona morte” cui si oppongono.
Questo colossale paralogismo ha due radici fondamentali: un errore di ordine tecnico giuridico, e un difetto di dialogo interno al mondo cattolico stesso. Dopo la vicenda Englaro, con il suo contorno di decisioni della magistratura, molti sostengono che non vi sarebbero più dubbi: ci vuole una legge sul c.d. “fine vita”. Lo si sostiene anche autorevolmente, come nel caso del presidente del Movimento per la Vita Italiano, Carlo Casini.
Molti cattolici e molti pro life pensano che, se la legge verrà approvata, il rischio eutanasia sarà scongiurato. Un’illusione forse pia, ma di sicuro irragionevole, tipica di chi sta facendo il gioco del giaguaro, credendo magari di combatterlo.
Basta por mente ad alcuni elementi della questione.


Primo. Il nostro ordinamento continua ad avere un presidio molto solido contro l’eutanasia e l’abbandono terapeutico nelle norme del Codice Penale regolarmente in vigore, soprattutto gli articoli sull’omicidio del consenziente e sull’istigazione al suicidio. Alcuni giudici, per altro civili e non penali, hanno assunto provvedimenti che ignorano questo profilo. Ma allora era precisamente sul terreno giudiziario e dei poteri della magistratura che si doveva condurre la battaglia, contrastando le “sentenze creative” e censurando le forzature togate.
Secondo. Lo scopo dei settori ideologizzati della magistratura favorevoli all’eutanasia è proprio quello di spingere il Parlamento a fare una legge e a riconoscere il testamento biologico. E se stessimo facendo proprio il gioco dei nostri avversari?
Terzo. Può darsi che serva una legge, ma non qualunque legge. I parlamentari stiano molto attenti all’inserimento di emendamenti peggiorativi, che trasformerebbero il testo sulle DAT in una legge sull’eutanasia in incognita.
Quarto. Anche ammettendo che il testo sulle DAT di prossima discussione non venga stravolto, esso comporta il riconoscimento solenne da parte della legge della efficacia e validità del testamento biologico. E contiene ulteriori “zone grigie” che andranno ben oltre il principio di autonomia del paziente. Se una legge proprio si voleva votare, ne bastava una fatta di un unico articolo, che vietasse la sospensione di alimentazione e idratazione ai soggetti incapaci. Punto.
Quinto. Se il problema sono le “sentenze creative”, con ogni probabilità esse non saranno scongiurate dalla legge sulle DAT, ma al contrario si moltiplicheranno, e si assisterà a quello stesso stillicidio di ricorsi, anche in sede costituzionale, che dal 2004 a oggi hanno smontato come una Matrioska la legge 40 sulla fecondazione artificiale.
Sesto. Il testamento biologico non è mai stato nelle corde del mondo cattolico, che lo ha spesso visto con sospetto, come primo passo verso l’eutanasia. Ora questa legge potrebbe essere approvata con l’etichetta di “provvedimento che piace ai vescovi”, esattamente come accadde con la legge 40. Attenzione agli effetti diseducativi, e alla confusione pedagogica per i fedeli. Non vorremmo che nelle parrocchie arrivassero, dopo la “provetta cattolica perché omologa”, anche le “DAT cattoliche” perché votate dai parlamentari cristiani.
Settimo. Un intervento legislativo si poteva fare, ma molto più semplice e snello. Un testo che vietasse l’interruzione di ogni trattamento vitale in pazienti privi di conoscenza, garantendo così, per esempio, alimentazione, idratazione, ventilazione, come cure doverose da parte del buon medico ippocratico. Senza aprire porte o finestre al mostro giuridico che si chiama testamento biologico, una piovra dai mille tentacoli che, una volta liberata, farà strage del principio di indisponibilità della vita umana.

Tutto questo nel mondo cattolico italiano non si può dire. Invece che ragionare al proprio interno, si preferisce para-ragionare con i propri avversari. Eppure, fino al famoso discorso del Cardinale Angelo Bagnasco del settembre 2008, nel quale le DAT furono “sdoganate”, tutto il mondo pro life italiano e internazionale, i bioeticisti cattolici, le persone di buona volontà in genere contrarie all’eutanasia, tutti erano parimenti contrari al testamento biologico. Quel discorso ha provocato un repentino, irragionevole e immotivato “capovolgimento” di fronte, e gran parte dei contrari alle DAT hanno iniziato a sostenerle. Giuliano Ferrara, Francesco Agnoli, il Comitato Verità e Vita e altre voci si sono levate in dissenso. Sono state sbertucciate dalla stampa cattolica ufficiale. Il guaio è che si è voluto evitare un confronto aperto e pubblico con queste voci, nonostante nella base, nel popolo, serpeggi una diffusa inquietudine di fronte al testo sulle DAT. Il quotidiano dei vescovi, Avvenire, in tutti questi anni ha totalmente ignorato le posizioni di chi, all’interno del mondo pro life, contesta la legge sul Testamento biologico. Si vuole marciare a ranghi serrati e a testa bassa verso l’approvazione delle DAT, facendo finta che non esistano problemi, anche gravi, nell’impianto della legge. Ma soffocare la verità nella culla non è mai un buon segno per chi quella verità dovrebbe servirla, costi quello che costi. Anche per questo motivo è facile prevedere che la legge, una volta approvata, si trasformerà in un incubo per tutti coloro che hanno a cuore il diritto alla vita di ogni malato. E magari ci si troverà davanti a cattolici che, come Binding e Hoche nel 1930, parleranno di “vite senza qualità”.


"Libera marijuana" per fini medici di Giuseppe Brienza, 23-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

La Toscana vuole legalizzare l’uso, “a fini terapeutici”, dei fiori della canapa indiana. Lo vuole fare rifacendosi ai “casi pietosi”, esattamente come si pretese prima, durante e dopo il Sessantotto. Ma il rischio è quello poi di legittimare strappi alla legge e alla cultura comune, da allargare in seguito progressivamente.

Il consigliere regionale del Pd Enzo Brogi, promotore del disegno di legge “libera-marijuana”, ha dichiarato infatti di aver scritto il testo pensando alle “sofferenze dei malati” e, in particolare, di "una collega uccisa pochi giorni fa dal cancro. Mi raccontava quanto fosse importante assumere sostanze cannabinoidi prima di sottoporsi a chemio e per combattere dolore e nausea”.

Brogi, che da giovane è stato boy scout e, dal 1968, ha cominciato una militanza nella sinistra extraparlamentare che lo ha condotto dapprima ad aderire a Lotta Continua e, poi, ad iscriversi nel 1978, al PCI, sta ultimando la stesura della norma che farebbe della Toscana la prima regione italiana a prevedere il rimborso delle cure a base di cannabinoidi.

Qualcosa del genere esiste oggi solo in Puglia ma, in quel caso, l’uso della marijuana è regolato non da una legge regionale, bensì da una fonte normativa meno impegnativa, e perciò meno vincolante per l’evoluzione futura dell’ordinamento nazionale, come una delibera della Giunta regionale.

Il Consiglio Regionale toscano potrebbe approvare la legge antiproibizionista entro il prossimo maggio, garantendo così ai pazienti che decideranno di utilizzarla, per ora esclusivamente nelle strutture del Servizio sanitario pubblico, il diritto ad un rimborso totale delle spese. Brogi ha comunque già messo in chiaro di non escludere in futuro che la legalizzazione ed il rimborso della sostanza possano essere estesi anche all’utilizzo in casa, “sotto rigido controllo medico”.

Tutto ciò nonostante che, da ultimo nel 2003, il Consiglio superiore di sanità abbia documentato come la marijuana non costituisca affatto una droga “leggera”, bensì corrisponda a tutti i connotati di una sostanza tossica il cui uso origina danni fisiologici e psichici pesanti (producendo, da quest’ultimo punto di vista, sindrome amotivazionale, perdita di memoria, “piano inclinato” all’eroina, schizofrenia: tutti effetti provati scientificamente).

Come nel Sessantotto, anche oggi quello che succede in Italia non è altro che l’eco riflesso d’Oltreoceano. Già dal 2009, infatti, i coltivatori e commercianti statunitensi di "marijuana medica" sono liberi di svolgere la loro attività. Ad autorizzare l'uso terapeutico della cannabis senza intromissioni delle autorità federali è stato il presidente Obama e, già quattordici dei cinquanta stati americani ne autorizzano quindi la coltivazione e lo smercio come farmaco.

Ma così meno ostacoli si sono frapposti alla vendita di marijuana anche a chi non è malato, soprattutto in stati nei quali la sua coltivazione clandestina è enorme, come la California, dove tale sostanza è chiamata ormai il cosiddetto "diamante verde". E non a caso, già dalla fine del 2009 i deputati dello Stato della California hanno cominciato, finora senza successo, a discutere i possibili effetti di una proposta di legge per legalizzare, regolare e tassare l'uso personale della marijuana.

Questo perché la marijuana fa gola anche alle casse ormai esangui dello Stato della West Coast: si calcola che dalla legalizzazione potrebbero infatti arrivare quasi un miliardo e mezzo di dollari all'anno, come ha scritto qualche tempo fa il New York Times.

Le cure palliative sono importanti e ciò che si può fare per alleviare la sofferenza dei malati terminali va sostenuto. Ma sarebbe utile far conoscere e cercare di fermare il progetto apri-pista toscano, perché si rischia di spalancare una porta alla futura liberalizzazione della marijuana.




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