In difesa del malato. Fine vita: quale legge? - Autore: Corticelli, Alfredo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 13 febbraio 2011
“Dottore, mi lasci morire!”… ricordo, tra tanti, questo dialogo avvenuto qualche anno fa con una paziente. Aveva una ottantina d’anni ed era ricoverata in reparto di cardiologia per una embolia polmonare; diceva di aver fatto l’infermiera. Sapevo bene che poteva essere la malattia che l’avrebbe portata alla morte, e già era allettata da alcuni giorni, ma mi venne spontaneo risponderle: “Signora, io sono qui per curarla”. Dopo due settimane di ospedalizzazione, in terapia anticoagulante ed ossigeno, ebbe un decorso favorevole, riprese gradualmente la mobilizzazione ed uscì dall’ospedale con le sue gambe.
Ricordo una paziente di più di novant’anni, ricoverata per uno scompenso cardiaco in fase avanzata, non faceva che dire: “Dottore, aiuto!”, spesso come una frase ripetuta neanche consapevolmente. Non aveva risposto a nessuna terapia, cachettica, di giorno in giorno peggiorava sempre di più ed aveva iniziato a contrarre la diuresi. L’ultimo giorno l’abbiamo visitata al mattino, vigile, respirava molto male. A fine mattina è andata in arresto cardiaco. Con l’altra dottoressa presente in reparto abbiamo aspettato che si spegnesse. Non abbiamo compiuto nessuna manovra rianimatoria, in una paziente terminale non avrebbe avuto nessun senso: di qualcosa si deve pur morire.
Recentemente mi è capitato di fare un ecocardiogramma ad un ragazzo giovane, vent’anni, rimasto tetra paretico a seguito di un trauma della strada, senza alcun danno intellettivo e pienamente consapevole della sua condizione. L’ho guardato con commozione e mi sono reinterrogato, ancora una volta, sul significato della vita e sul mio lavoro di medico.
Per secoli la relazione medico-paziente, con tutti i traguardi e le evoluzioni che la medicina ha raggiunto, si è svolta alla luce di quel bellissimo adagio medioevale che diceva: «Guarire qualche volta, alleviare spesso, confortare sempre». Si è svolta cioè nella consapevolezza che lo scopo dell’atto medico è servire la vita che hai affianco, accompagnarla e riconoscere quando è arrivato il suo termine. Il medico non pretendeva di giocare a fare il Padreterno, pensando con le quatto cose che ha studiato di sostituirsi ad Esso; ed il paziente non sentiva il bisogno di fare un “testamento biologico”, perché non pensava di saperne così tanto e così in anticipo da decidere quando e come morire e soprattutto non pretendeva che dovesse essere proprio il medico a farlo morire.
Ma oggi le cose sono cambiate, la relazione medico-paziente spesso (e per colpa di entrambi) non ha più la percezione di conforto alla condizione di infermità (beninteso, con tutte le risorse di cui il medico dispone) ma sembra piuttosto un insieme di diritti e doveri. E in questo contesto la relazione viene privata di quell’incontro di libertà che si interroga su cosa è più adeguato fare in quella determinata condizione di salute, meglio andare dal giudice ed invocare il diritto a staccare la spina. Non solo, meglio estendere questo diritto a tutti! Meglio scriverlo nero su bianco prima, davanti ad un notaio. Meglio andare in televisione e mostrare che i pazienti ed i medici che vogliono vivere in modo vero la condizione della malattia, sono dei poveretti, degli estremisti, gente che non ha capito niente: vogliono a tutti i costi mantenere in vita condizioni invivibili, morti viventi. E poi si trova sempre qualche scienziato che, in nome della laicità dello stato, sostiene che idratazione ed alimentazione sono forzature indegne, vita artificiale! Come se fosse un problema di fede e non di ragione capire la cosa più elementare del mondo: che se tu non puoi mangiare e non puoi bere cronicamente, qualcuno ti deve pur dare da mangiare e da bere; il contrario mi sembra indice, più che di una concezione laica, di una concezione tribale dello stato.
Ecco, in questo contesto, è quanto mai urgente una regolamentazione legislativa sul fine-vita. È quanto mai urgente cioè che si ribadisca che il diritto alla vita è inviolabile ed indisponibile in qualunque condizione di salute; che la medicina non deve in alcun modo aiutare il suicidio; che se anche alle piante domestiche non si nega acqua e nutrimento, tanto meno lo si deve negare a chi si trova in uno stato di coma. Allora in questo senso lo scopo delle “dichiarazioni anticipate di trattamento” non può che essere di aiuto alla relazione medico-paziente, come strumento di conoscenza, ma mai come vincolo che obblighi il medico a causare la morte del paziente.
Ora che il disegno di legge Calabrò sta per approdare alla Camera, occorre che la politica riprenda in mano l’impegno bioetico. Dopo la limitazione all’utilizzo degli embrioni, dopo l’implementazione delle cure palliative, dopo il tentativo purtroppo infruttuoso di salvare Eluana, occorre che si metta mano ad una legge che difenda l’indisponibilità della vita anche nelle sue fasi terminali e nelle condizioni di gravi disabilità (come lo stato vegetativo persistente). Ed occorre sfrondare qualunque emendamento che, in nome di una mediazione politica, rischi di lasciar spazio ad una concezione eutanasica della medicina.
Ne va della vita stessa di molte persone e, non ultimo, della relazione medico-paziente
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