Avvenire.it, 12 febbraio 2011, E se provassimo a ri-umanizzare la malattia? Quando la vita resta orfana della sua stessa fragilità di Salvatore Mazza
C'era una volta il medico di famiglia. Quando veniva a casa gli si faceva trovare la poltroncina accanto al letto, gli si offriva il caffè, o un bicchierino – «ma proprio un goccio!» –, si parlava. Magari a casa tua c’era stato anche per guardare la levatrice far nascere qualcuno. Spesso succedeva che capitasse lì per chiudere gli occhi di qualcun altro. Ecco, quando si parla di "umanizzazione della medicina" viene naturale pensare a quel medico. Con qualche rimpianto, pensando all’asettica freddezza di una medicina moderna che, se ci ha regalato una manciata d’anni di speranza di vita in più rispetto anche a solo trent’anni fa, tanto ci ha anche tolto in termini di relazione.
Ma forse, mentre si invoca una medicina più vicina all’uomo, dovremmo, tutti quanti, pensare alla necessità – contemporanea o forse perfino precedente – di ri-umanizzare la malattia, la sofferenza, la stessa morte. Viviamo in un’epoca, infatti, in cui tutto ciò che è dolore, sofferenza, invecchiamento, morbilità, viene spinto ai margini. La cultura della vita è declinata in un culto della vita inscritto nelle coordinate di gioventù, salute e bellezza: e alla medicina è questo che per prima cosa si chiede, all’inseguimento di una "perfezione", di un’immortalità di cui mai carezzeremo neppure l’illusione. Lo sappiamo tutti. Ma è bello crederci.
È facile, in fondo, ignorare l’idea stessa della malattia, rimuoverne lo spettro, renderla estranea alla vita. Fin che dura. Fin quando la nostra fragilità si rivela. Si arriva così al paradosso che la vita, il "bene indisponibile" per eccellenza in tutti i tempi e in tutte le culture, è oggi ancora tale, sì, ma fino a un certo punto. Indisponibile finché la salute c’è – e guai a non rispettare le indicazioni per la prevenzione, in alcuni casi si può persino finire in galera – salvo poi essere rimessa prontamente nella disponibilità dei singoli quando quella comincia a zoppicare, quando tutto ciò che avevamo rimosso si fa concreto e presente. Ma a quel punto i sistemi sanitari sono già diventati come il banchiere di Mark Twain, quello che ti presta l’ombrello quando c’è il sole e te lo chiede indietro quando piove; e "qualità della vita" non definisce l’indispensabile compromesso da trovare tra cure, terapie e assistenza dovute a ogni malato, ma un concetto astratto che misura la nostra illusione prometeica. De-umanizzando la malattia, insomma, la vita resta unicamente un bene misurabile sul metro soggettivo, e la decisione sulla sua "qualità" nient’altro che un compromesso da fondare sul consenso del momento, suscettibile, domani, di spostarsi un po’ più in là.
Nessuna sorpresa, in questa situazione, se Beppino Englaro ha definito «crudeli» le suore che per tre lustri hanno assistito la figlia. Nessuna sorpresa per i ricorsi contro il divieto delle diagnosi prenatali. Nessuna sorpresa per le tentazioni eutanasiche ed eugenetiche. È quello che succede quando l’imperfezione, la malattia, sono ritenute estranee alla vita, accidente e non sostanza del nostro esistere. Non c’entra nulla, in tutto questo, la presunta contrapposizione tra cultura "cristiana" e cultura "laica". E del resto, quando nel marzo del 2006 Benedetto XVI declinò i cosiddetti valori non negoziabili, al capoverso successivo fu deciso nel precisare: attenzione, questi princìpi non sono verità di fede... sono iscritti nella stessa natura umana e quindi sono comuni a tutta l’umanità. C’entra, piuttosto, la capacità della nostra cultura di tornare a capire tutto quello che i nostri nonni sapevano benissimo.
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