martedì 2 ottobre 2012


La contrarietà all'ergastolo - Questione di speranza non di scienza di Francesco D'Agostino, 2 ottobre 2012, http://www.avvenire.it

Che argomenti può usare chi, come me, è contro l’ergastolo? Uno solo: quello della speranza. Alludo alla speranza in senso forte, alla speranza cristiana, quella secondo la quale non esiste colpa dalla quale non ci si possa redimere, non esiste crimine che non possa essere espiato, non esiste un reo che non possa essere (con saggezza) riammesso nel vivere sociale.

Qualifico questa speranza come "cristiana", perché essa non ha come fondamento l’esperienza, ma fa riferimento unicamente alla grazia di Dio, che può raggiungere e salvare chiunque e dovunque, imperscrutabilmente e imprevedibilmente. Se invece cerchiamo di dare alla speranza un fondamento esclusivamente umano, affidandoci alle tante tecniche di recupero sociale dei delinquenti che periodicamente vengono proposte e riproposte, dobbiamo purtroppo riconoscere che nessuna di esse regge davvero a una verifica rigorosa e che la probabilità che il carcere possa garantire la rieducazione dei rei (in specie di coloro che siamo soliti qualificare come "efferati") è pressoché nulla o comunque così bassa che non giustificherebbe alcun impegno socio-pedagogico nei loro confronti.

Ecco però che all’argomento della speranza cristiana sembra aggiungersene un altro. Umberto Veronesi (su Repubblica del 26 settembre) sostiene che la «scienza» sta dalla parte di chi vuole abolire l’ergastolo. Egli ci spiega che il nostro sistema neuronale è così plastico, da rimodellare in vent’anni, e in senso buono, l’identità criminale di un reo, così da rendere superflua e al limite sadica la prosecuzione a vita della pena carceraria.

L’argomento è suggestivo, ma (ahimè!) prova troppo. Se è innegabile che il nostro sistema di neuroni è plastico e si rinnova, chi ci garantisce che negli anni esso non possa evolvere in direzione antisociale, attivando o potenziando nella persona pulsioni criminali che in ipotesi non le erano né congenite, né comunque riconducibili alle sue situazioni contingenti di vita? Il principio di legalità (cioè la certezza della durata massima della pena cui si venga condannati) viene a perdere in questa prospettiva ogni senso; dovremmo sostituirlo con nuovi sistemi di controllo neurologici, capaci di verificare periodicamente l’aggressività non solo di ogni carcerato, ma al limite di ogni singolo individuo. Anche, infatti concordando con la dolce prospettiva che Veronesi ci propone, cioè che l’essere umano sia antropologicamente e biologicamente predisposto alla fraternità e alla solidarietà, come escludere che in ognuno di noi (magari a seguito della semplice lettura delle cronache politiche dei quotidiani) non possano scattare reazioni neurologiche incontrollabili di aggressività criminale? La prevenzione neurologica dei delitti dovrebbe diventare il primo dovere di ogni politica sociale, rispettosa delle scoperte della scienza!

La verità è che il principio di legalità, gloria del diritto penale moderno, è una straordinaria sintesi antropologica tra un pessimismo empiricamente molto ben fondato e un doveroso ottimismo, che ha le sue radici nel messaggio evangelico. E qui concordo con Veronesi, quando conclude che la critica all’ergastolo si muove in sintonia con l’appello universale alla conversione di Giovanni Battista; ma proprio a causa di questa sintonia essa ha ben poco a che fare con la scienza. I neuroscienziati meritano tutto il nostro rispetto, non perché confermino l’annuncio evangelico, ma perché ci illuminano sul funzionamento del cervello, un funzionamento che può, nel mistero della libertà, orientare la persona sia verso il bene che verso il male.

Per orientare l’uomo verso il bene dobbiamo chiedere l’aiuto di Dio, più che quello della scienza, che è in sé eticamente cieca. Un riconoscimento, questo, che non ne sminuisce per nulla il valore e contribuisce anzi a salvarla contro ogni deformazione e utilizzazione ideologica.

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