Utilità clinica? Non sempre c'è - Giuseppe Novelli - 30 settembre 2012,
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La rivoluzione biotecnologica ha
consentito ai genetisti di ridefinire le basi biologiche di molte malattie, di
localizzare nel genoma e di clonare i geni associati a numerose malattie e di
stabilire le alterazioni cromosomiche responsabili di molte patologie. Questi
avanzamenti hanno avuto e stanno avendo ricadute applicative, in particolare
attraverso lo sviluppo e la disponibilità di test genetici che vengono sempre
più spesso offerti direttamente ai cittadini; senza passare per un filtro di
consulenze mediche circa il loro valore clinico. Tra i ricercatori si discute
dell'esigenza di stabilire criteri utili per evitare che la produzione e il
consumo di queste informazioni possa generare abusi ai danni delle persone che
mettono le loro informazioni genetiche bioa disposizione di varie istituzioni
private o pubbliche. Negli ultimi mesi la rivista Nature ha sollevato più volte
questo problema. La discussione in corso tende a prescindere da alcune
valutazione preliminari, di carattere scientifico-metodologico, che andrebbero
considerate nella discussione.
I test genetici consistono
nell'analisi dei cromosomi, del Dna, dell'Rna, delle proteine o di altri
fattori biochimici, finalizzata a identificare o escludere una modificazione
indicativa di una specifica alterazione genetica. Questa definizione implica
una serie di indagini che trovano ampia applicazione in ambito medico, ma non
solo. Infatti i test genetici includono, a seconda dell'obiettivo che si
prefiggono, i test diagnostici, i test presintomatici, test per
l'identificazione dei portatori sani, i test fenotipici, i test predittivi o di
suscettibilità, i test comportamentali, i test di nutrigenetica, i test di
farmacogenetica, i test rivolti a definire i rapporti di parentela, i test
ancestrali e i test di compatibilità genetica.
Negli ultimi dieci anni lo
sviluppo tecnologico ha accelerato di circa 50mila volte la rapidità
dell'analisi genetica e ne ha ridotto drasticamente i costi (da alcuni milioni
a varie centinaia di migliaia e, ormai, a poche migliaia di euro). Per cui oggi
è possibile decodificare rapidamente il profilo genomico individuale e
identificare le variazioni ereditarie che ci rendono suscettibili alle malattie
e che influenzano le risposte a diversi fattori di rischio ambientali; inclusi
gli stili di vita.
Nonostante i numerosi vantaggi, i
test genetici o genomici, come oggi sono spesso chiamati, presentano alcuni
limiti. Il primo riguarda l'accuratezza dell'analisi che, anche quando è molto
elevata, non raggiunge il 100 per cento. Ciò a causa di possibili errori
tecnici nell'analisi dei campioni o nell'interpretazione dei risultati. Ma
anche perché non sempre certe mutazioni o variazioni sono sinonimo di malattia
o di un rischio di malattia. È il caso dei test predittivi o di suscettibilità,
che tentano di quantificare, statisticamente, le predisposizioni o le
resistenze genetiche individuali, per quanto riguarda qualche malattia comune
(ad esempio suscettibilità al diabete tipo 2, alla malattia di Crohn eccetera).
E sono proprio questi test a essere più richiesti e venduti nei
"supermarket" genetici.
Alla fine dell'Ottocento sir
William Osler, famoso medico canadese, aveva intuito che se non fosse esistita
la variabilità tra le persone malate, la medicina sarebbe stata una scienza e
non un'arte. I recenti sviluppi della genetica hanno confermato il concetto di
«variabilità» clinica, ovvero che «esistono i malati, non le malattie»,
dimostrando che quella variabilità è largamente scritta nel Dna di ogni
persona. Senza contare e conoscere l'effetto epigenetico delle interazioni tra
i geni e l'ambiente. Negli anni Novanta, il genetista Francis Collins, leader
del Progetto Genoma Umano, prendendo lo spunto dalle conoscenze che stavano
emergendo dalla rivoluzione molecolare, affermava che praticamente tutte le
malattie hanno una base genetica, e identificava nello studio dei loro
meccanismi una priorità della ricerca.
Oggi disponiamo di test
predittivi per almeno 150 malattie e caratteri complessi. Tuttavia le
variazioni rilevate dai test predittivi contribuiscono solo in minima parte al
rischio complessivo di malattia. E questo per ragioni che dipendono dal fatto
che noi siamo il prodotto dell'evoluzione biologica. Quello che osserviamo noi
genetisti medici è la prova dell'efficienza della selezione naturale, che ha
amplificato le variazioni individuali che troviamo associate alle malattie
complesse nella popolazione.
Questi risultati hanno acceso un
dibattito sull'utilità clinica di questi test, considerato che il loro potere
predittivo non è superiore a quello con il quale oggi, nell'attività clinica,
si calcolano certi rischi, utilizzando test non-genetici, come ad esempio il
colesterolo Ldl o gli antigeni prostata-specifici. Allora, come comportarsi?
A me viene in mente l'eminenza
grigia dell'epidemiologia, Bradford Hill, che ne 1965 trovò la soluzione per
stabilire il nesso tra causalità del tumore al polmone e fumo di sigaretta. Se
il tumore al polmone non entrava nella camicia di forza dei postulati di Koch,
cioè dei metodi sperimentali utilizzati in laboratorio, allora bisognava
allentare i lacci. Egli stabilì una serie di criteri necessari per dimostrare
in modo obiettivo il rischio aumentato di chi fuma verso il cancro del polmone.
Penso che analogamente si potrebbero utilizzare, riscrivendoli, i criteri di
Hill per stabilire l'utilità clinica dei test genetici predittivi.
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