lunedì 1 ottobre 2012


Utilità clinica? Non sempre c'è - Giuseppe Novelli - 30 settembre 2012, http://www.ilsole24ore.com

La rivoluzione biotecnologica ha consentito ai genetisti di ridefinire le basi biologiche di molte malattie, di localizzare nel genoma e di clonare i geni associati a numerose malattie e di stabilire le alterazioni cromosomiche responsabili di molte patologie. Questi avanzamenti hanno avuto e stanno avendo ricadute applicative, in particolare attraverso lo sviluppo e la disponibilità di test genetici che vengono sempre più spesso offerti direttamente ai cittadini; senza passare per un filtro di consulenze mediche circa il loro valore clinico. Tra i ricercatori si discute dell'esigenza di stabilire criteri utili per evitare che la produzione e il consumo di queste informazioni possa generare abusi ai danni delle persone che mettono le loro informazioni genetiche bioa disposizione di varie istituzioni private o pubbliche. Negli ultimi mesi la rivista Nature ha sollevato più volte questo problema. La discussione in corso tende a prescindere da alcune valutazione preliminari, di carattere scientifico-metodologico, che andrebbero considerate nella discussione.
I test genetici consistono nell'analisi dei cromosomi, del Dna, dell'Rna, delle proteine o di altri fattori biochimici, finalizzata a identificare o escludere una modificazione indicativa di una specifica alterazione genetica. Questa definizione implica una serie di indagini che trovano ampia applicazione in ambito medico, ma non solo. Infatti i test genetici includono, a seconda dell'obiettivo che si prefiggono, i test diagnostici, i test presintomatici, test per l'identificazione dei portatori sani, i test fenotipici, i test predittivi o di suscettibilità, i test comportamentali, i test di nutrigenetica, i test di farmacogenetica, i test rivolti a definire i rapporti di parentela, i test ancestrali e i test di compatibilità genetica.
Negli ultimi dieci anni lo sviluppo tecnologico ha accelerato di circa 50mila volte la rapidità dell'analisi genetica e ne ha ridotto drasticamente i costi (da alcuni milioni a varie centinaia di migliaia e, ormai, a poche migliaia di euro). Per cui oggi è possibile decodificare rapidamente il profilo genomico individuale e identificare le variazioni ereditarie che ci rendono suscettibili alle malattie e che influenzano le risposte a diversi fattori di rischio ambientali; inclusi gli stili di vita.
Nonostante i numerosi vantaggi, i test genetici o genomici, come oggi sono spesso chiamati, presentano alcuni limiti. Il primo riguarda l'accuratezza dell'analisi che, anche quando è molto elevata, non raggiunge il 100 per cento. Ciò a causa di possibili errori tecnici nell'analisi dei campioni o nell'interpretazione dei risultati. Ma anche perché non sempre certe mutazioni o variazioni sono sinonimo di malattia o di un rischio di malattia. È il caso dei test predittivi o di suscettibilità, che tentano di quantificare, statisticamente, le predisposizioni o le resistenze genetiche individuali, per quanto riguarda qualche malattia comune (ad esempio suscettibilità al diabete tipo 2, alla malattia di Crohn eccetera). E sono proprio questi test a essere più richiesti e venduti nei "supermarket" genetici.
Alla fine dell'Ottocento sir William Osler, famoso medico canadese, aveva intuito che se non fosse esistita la variabilità tra le persone malate, la medicina sarebbe stata una scienza e non un'arte. I recenti sviluppi della genetica hanno confermato il concetto di «variabilità» clinica, ovvero che «esistono i malati, non le malattie», dimostrando che quella variabilità è largamente scritta nel Dna di ogni persona. Senza contare e conoscere l'effetto epigenetico delle interazioni tra i geni e l'ambiente. Negli anni Novanta, il genetista Francis Collins, leader del Progetto Genoma Umano, prendendo lo spunto dalle conoscenze che stavano emergendo dalla rivoluzione molecolare, affermava che praticamente tutte le malattie hanno una base genetica, e identificava nello studio dei loro meccanismi una priorità della ricerca.
Oggi disponiamo di test predittivi per almeno 150 malattie e caratteri complessi. Tuttavia le variazioni rilevate dai test predittivi contribuiscono solo in minima parte al rischio complessivo di malattia. E questo per ragioni che dipendono dal fatto che noi siamo il prodotto dell'evoluzione biologica. Quello che osserviamo noi genetisti medici è la prova dell'efficienza della selezione naturale, che ha amplificato le variazioni individuali che troviamo associate alle malattie complesse nella popolazione.
Questi risultati hanno acceso un dibattito sull'utilità clinica di questi test, considerato che il loro potere predittivo non è superiore a quello con il quale oggi, nell'attività clinica, si calcolano certi rischi, utilizzando test non-genetici, come ad esempio il colesterolo Ldl o gli antigeni prostata-specifici. Allora, come comportarsi?
A me viene in mente l'eminenza grigia dell'epidemiologia, Bradford Hill, che ne 1965 trovò la soluzione per stabilire il nesso tra causalità del tumore al polmone e fumo di sigaretta. Se il tumore al polmone non entrava nella camicia di forza dei postulati di Koch, cioè dei metodi sperimentali utilizzati in laboratorio, allora bisognava allentare i lacci. Egli stabilì una serie di criteri necessari per dimostrare in modo obiettivo il rischio aumentato di chi fuma verso il cancro del polmone. Penso che analogamente si potrebbero utilizzare, riscrivendoli, i criteri di Hill per stabilire l'utilità clinica dei test genetici predittivi.

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