lunedì 12 novembre 2012



​Se si mettono in fila le cose che in 15 anni di vita Malala Yousafzai ha saputo fare con il suo coraggio e la sua intelligenza, c’è da restare sbalorditi. La coraggiosa adolescente pachistana, gravemente ferita a colpi d’arma da fuoco dai taleban un mese fa su un autobus mentre si recava a scuola, a soli 9 anni era già una piccola “attivista” che difendeva il diritto allo studio delle bambine nel suo grande Paese, che è ricco di contraddizioni e dove tale diritto viene troppo spesso negato dalla miseria e soprattutto dalle chiusure degli integralisti islamici verso ogni tipo di emancipazione femminile. 

A 11 anni Malala ha creato un blog sotto pseudonimo per la britannica Bbc. Sulla sua vita ha girato un documentario il sito del New York Times dando fama globale non solo e non tanto a una bambina, ma ai suoi sogni. Sogni che in Italia, e nella porzione di mondo di cui l’Italia è parte, sono da decenni un diritto acquisito, ma non nel resto del globo. Secondo le Nazioni Unite, sono infatti almeno 32 milioni le bambine che non possono frequentare la scuola. Di queste, 5 milioni sono pachistane.

Grazie ai miracoli, che ogni tanto accadono, l’agguato dei taleban a Malala è fallito e il male subito dalla piccola ha fatto conoscere al mondo la sua storia. La vicenda ha scosso milioni di esseri umani, tanto che la famiglia si è detta commossa dal numero di «uomini, donne e bambini interessati alla sua guarigione». Che tutti ci auguriamo sia rapida.

Mentre Malala è ricoverata in Gran Bretagna, accadono altre cose straordinarie, grandi e piccole. Ieri, in tutto il mondo, per iniziativa dell’Onu si è celebrata una giornata a lei dedicata per sostenerla e nella capitale pachistana Gordon Brown, ex premier britannico e inviato speciale dell’Onu, ha consegnato al presidente Zardari una petizione firmata da un milione di persone a sostegno della battaglia per l’istruzione femminile. 

Lo stesso Zardari ha riconosciuto che Malala è diventata «simbolo di tutto quello che abbiamo di buono» e ha annunciato una iniziativa speciale per garantire la scuola gratuita ai figli delle famiglie povere. La piccola, insomma, ha saputo unire governo, le religioni, le minoranze e la vivace società civile del Pakistan. Non solo. In silenzio – raccontano molte testimonianze – la sua vicenda, la tenacia e la pacatezza con cui rivendica il diritto delle bambine a studiare, stanno facendo breccia nei cuori (e nelle teste) anche in aree dell’Afghanistan e del Pakistan dominate dall’islam più intransigente.

Quanto sta accadendo grazie alla piccola pachistana merita davvero attenzione. Anche quella di coloro che assegnano il Premio Nobel. Da qualche giorno è cominciata una raccolta di firme per attribuire a Malala il Nobel per la pace. Sarebbe giusto, per diversi motivi. Anzitutto, per la nobilissima causa per la quale si batte, poi perché manderebbe ai giovani – soprattutto dei Paesi più poveri – un messaggio diretto e davvero universale: occorre sempre battersi per la giustizia e la dignità umana, farlo con tutto il cuore e con mezzi pacifici. Poi perché quel riconoscimento premierebbe idealmente anche altri tre “grandi” pachistani. Il primo è Iqbal, venduto a quattro anni dal padre a un commerciante di tappeti per 12 dollari. 

Divenne anch’egli attivista contro la schiavitù infantile, ma fu ucciso per strada nel 1995 ad appena 12 anni. Il secondo è Shabhaz Bhatti, il ministro cattolico per le minoranze assassinato a 42 anni, nel marzo 2011, perché voleva cancellare le infamie compiute in forza della famigerata legge pachistana sulla blasfemia. La terza è Asia Bibi, la donna che a causa di questa legge è stata assurdamente imprigionata e condannata a morte, e per la cui libertà non si stancherà mai di lottare chi ha a cuore la vera giustizia. 

Un bambino che non voleva restare schiavo e perciò non è mai diventato adulto, un uomo di pace e una donna perseguitata per la propria fede accompagnerebbero idealmente Malala, bambina che vuole studiare e capire anche quello che tanti adulti sulla faccia della terra ancora non capiscono. Sarebbe il Nobel di chi lotta per gli ultimi e le ultime. Noi applaudiremmo di cuore. E forse, stavolta, nessuno protesterebbe.

Paolo Lambruschi

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