Le nuove tecnologie disegnano un futuro migliore - IRENE TINAGLI - 15/11/2012
- http://lastampa.it
Siamo ormai abituati a pensare
alle nostre aziende che portano le loro fabbriche in Asia, rassegnandoci
all’idea che la nostra manifattura sia destinata a morire. Ma che significa se
il più grande produttore asiatico di prodotti elettronici comincia ad aprire
stabilimenti in Occidente? E’ questo quello che sta accadendo. Foxconn,
l’azienda cinese con base a Taiwan che per conto di numerose aziende
«occidentali» produce milioni di prodotti elettronici venduti in tutto il
mondo, già da qualche tempo sta rivolgendo il suo sguardo ad Occidente. Ha già
stabilimenti in Messico, in Brasile, e persino in Europa, in Ungheria,
Slovacchia e nella Repubblica Ceca. Ma qualche giorno fa ha fatto scalpore la
notizia, non ancora ufficiale, che Foxconn stia valutando alcune città
americane per la creazione di un nuovo stabilimento produttivo negli Stati
Uniti. E questo ha destato sorpresa, visto che gli Stati Uniti sono pur sempre
uno dei Paesi con il reddito procapite e con i salari medi tra i più alti del
mondo. I primi commentatori hanno ipotizzato che questo potrebbe essere un modo
per essere più vicini ad Apple, che con la produzione dell’iPhone è diventato uno
dei loro clienti più rilevanti, riducendo costi di trasporto e velocizzando il
ciclo degli ordini, oppure un modo per aggirare le polemiche sul lavoro
minorile che ha spinto Apple ad avviare ispezioni nelle fabbriche asiatiche di
Foxconn. Eppure dalle prime indiscrezioni pare che lo stabilimento americano
della Foxconn non produrrà nessun iPhone. Troppo complessa la loro produzione
per ricostruire tutta la catena di assemblaggio in nuovi stabilimenti. Sembra
invece che si tratti della produzione di tv a schermo piatto, in stabilimenti
altamente automatizzati. Quindi i motivi di questo interesse verso gli Stati
Uniti potrebbero essere legati a ciò che numerose analisi e commentatori
americani sostengono gia da mesi: l’accelerazione della ricerca tecnologica degli
ultimi anni, che ha portato sviluppi straordinari nella robotica,
nell’automazione e nell’unione tra scienze computazionali e ingegneristiche,
tra software e meccanica, tra informazioni digitali e prodotti materiali, che
potrebbe portare a produzioni più efficienti e altamente innovative.
Un esempio degli sviluppi di
questa ricerca e delle sue implicazioni per la manifattura sono le cosiddette
stampanti tridimensionali («3d»), macchine che ricevono «istruzioni»
direttamente da un computer sulla base di un modello digitale disegnato dal
progettista e che costruiscono l’oggetto disegnato, dall’inizio alla fine,
senza passaggi di mano o assemblaggi, senza interferenza umana, semplicemente
modellando e “stratificando” il materiale con cui viene costruito l’oggetto. Si
chiama «manifattura additiva», e per la verità non è un’invenzione di adesso.
Macchine di questo genere esistono da oltre due decenni, ma è solo negli ultimi
anni che sono riuscite a raggiungere dimensioni, semplicità di funzionamento e costi
accessibili a chiunque. Ed è questo il progresso che sta alimentando tanto
entusiasmo ed ottimismo negli analisti, sia per il potenziale impatto che
questa evoluzione può avere sulla produzione artigianale e sui tassi di
imprenditorialità e di innovazione (chiunque potrà diventare un produttore, con
costi fissi quasi nulli), sia, in prospettiva futura, sull’organizzazione di
tutta la produzione industriale su scala globale.
L’Economist pochi mesi fa l’ha
definita la terza rivoluzione industriale, dedicandogli un intero numero
speciale. E moltissime altre riviste, da Forbes a Businessweek, ormai da oltre
un anno dedicano articoli su articoli al fenomeno delle stampanti «3d», non
solo ai suoi aspetti «tecnici», ma, soprattutto, alla sua più affascinante
possibile implicazione economica: la rinascita e il ritorno della manifattura
industrializzata negli Stati Uniti. Infatti, grazie al forte abbattimento di
costi collegati a queste nuove tecnologie, molte produzioni potrebbero tornare
nel Paese che per decenni è stato leader indiscusso della manifattura
industrializzata e che oggi ha un chiaro vantaggio competitivo sul fronte della
manifattura additiva e sulle nuove frontiere dell’automazione. Ma il potenziale
impatto di queste tecnologie e la possibilità di trarne vantaggio non riguarda
solo gli Stati Uniti, ma molti altri Paesi, inclusi quelli emergenti, come il
Brasile - dove nella primavera scorsa ha aperto la prima catena franchising di
stampanti tridimensionali - e quelli in cui la manifattura ha vissuto in anni
recenti le maggiori difficoltà. L’Italia per esempio potrebbe trarre grandi
vantaggi da queste nuove tecnologie, mettendo a frutto alcuni dei suoi
tradizionali punti forti: il design, la capacità di progettazione, la piccola
imprenditorialità diffusa ed artigiana. Eppure, nonostante l’elevato potenziale
di rinnovamento che queste nuove tecnologie potrebbero avere per il nostro
sistema produttivo, sono ancora poche le persone che, nel nostro Paese, vi
stanno prestando la dovuta attenzione. I nostri dibattiti pubblici e politici
sono ancora monopolizzati dalle discussioni su vecchie modalità produttive,
sulle catene di montaggio, le miniere, gli altiforni. Argomenti più che
legittimi, ma che impediscono di vedere come certe nuove tecnologie potrebbero
aprire un nuovo futuro per il Paese e per i suoi lavoratori e ci condannano a
guardare sempre al passato. Dovremmo imparare a scrollarci di dosso questo
senso di smarrimento, impotenza e ineluttabilità che ci paralizza quando
pensiamo al domani, e capire che il futuro, alla fine, è di chi comincia a
costruirlo oggi.
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