SCUOLA/ Chi ha eliminato la ragione del cuore? - venerdì 9 novembre
2012 - http://www.ilsussidiario.net
Perché un bambino contento impara
di più? In questa domanda, e ancor più nella risposta, si nasconde una visione
dell’uomo che il razionalismo e il sentimentalismo che abitualmente respiriamo,
nella scuola e fuori, hanno censurato. Non solo; vi si cela anche il pesante
bilancio di una scuola che crede di educare, quando in largissima parte si
limita ad istruire. Le due cose, infatti, sono profondamente diverse. È una
ragione integrale che manca, oggi, nell’educazione. A fare difetto - però - non
è un algoritmo razionale, o il guizzo del genio, ma la ragione emotiva. Se le
emozioni non sono infatti comprese nella loro vera natura ed educate,
impazziscono, e quel che rimane è una razionalità monca. Davvero, allora, per
salvare la scuola occorre un ampio giro, più lungo di quanto normalmente si
pensi. È il tema affrontato da Manuela Cervi ne La ragione del cuore.
Antropologia delle emozioni (Cantagalli), da poco in libreria.
IlSussidiario.net ne ha parlato con l’autrice.
Nel suo lavoro lei studia,
riabilitandola, la ragione emotiva. Innanzitutto ci spieghi come queste due
parole possono stare insieme.
Non riabilito la ragione emotiva.
La introduco. Storicamente, al di fuori di ambiti razionalistici che hanno la
loro origine in una parte del pensiero greco classico, che influenzano un certo
percorso della scienza in epoca moderna, e che ispirano positivismo e
idealismo, c’è sempre stata in Occidente la consapevolezza di una ragione
ampia, robusta, energica, vitale, strumento dell’uomo per entrare in tutta la
realtà, per conoscerla e amarla. Eppure, questa consapevolezza è stata come
incanalata in percorsi carsici più o meno sotterranei, che l’hanno spesso
celata. Poi, sul versante psicologico a partire dagli anni 60, e sul versante
filosofico a partire dagli anni 80, un manipolo di studiosi è riuscito a
dimostrare l’intrinseca capacità cognitiva, di pensiero, dell’emozione e in
particolare la sua capacità valutativa. Io ho mostrato come e perché questa
capacità valutativa sia parte costitutiva del nostro pensare. Non mi risulta -
ad oggi – che sia mai stato introdotto il costrutto di ragione emotiva.
Che cos’è un’emozione?
L’emozione, ogni umore, passione
o consolidato atteggiamento, sono la modalità che noi tutti continuamente
mettiamo in gioco per valutare la realtà rispetto a quanto essa possa o meno
garantirci la vita.
Lei scrive: «gli istinti appartengono
già alla dinamica emotiva umana; neppure per loro vale il rigido determinismo
(stimolo-risposta) del solo livello organico. (...) L’errore consiste
nell’interpretare l’istinto umano come biologico, quand’esso è invece al
livello biologico di una struttura antropologica, che va molto al di là di
esso». Può spiegare?
Ad esempio l’istinto di
conservazione mi spinge a vivere, come accade per gli animali, ma se io non
trovo una ragione adeguata per vivere, posso suicidarmi; gli animali non lo
fanno. Oppure l’istinto alimentare mi spinge a mangiare, come accade per gli
animali, eppure io posso decidere di digiunare se ho una ragione adeguata per
farlo; gli animali no. Nell’uomo il livello organico è inserito in una
struttura complessiva, che contempla anche un io ovvero una libertà, una
ragione, una coscienza.
Cioè il livello antropologico.
Sì. È quest’ultimo livello,
quello – appunto – antropologico, che in-forma di sé i livelli precedenti (che
io ho individuato essere tre: organico, individuale e soggettivo), che lo
preparano ma dai quali si differenzia sostanzialmente, rendendoci persone
uniche e irripetibili. Non più organismi, individui e soggetti, ma persone
capaci di conoscere, di creare, di ammirare, di amare, di distinguere il bene
dal male e di scegliere il bene in luogo del male.
Eppure, mai come oggi le emozioni
hanno diritto di cittadinanza in particolare tra i giovani e giovanissimi. Ma
allora dove sta il problema?
Quello che ha diritto di
cittadinanza tra i giovani oggi non sono emozioni e sentimenti, ma il
sentimentalismo, che ne è l’assolutizzazione ideologica, così come il
razionalismo è l’assolutizzazione ideologica delle capacità elaborative e
astrattive che chiamiamo razionalità. Ad esempio di fronte alla morte di una
persona cara, di fronte al fatto della sua morte, invece che domandarsi: “Che
senso ha questa morte? Perché la sua morte ora? Perché la morte? È finito tutto
così? Finisce tutto così?”, commentare: «Quando passo davanti a casa sua provo
una profonda emozione»: questo è il sentimentalismo. Quando al sentire viene
negata la capacità cognitiva, quando cioè il sentire viene isolato e separato
dalla sua intrinseca capacità valutativa, diventa impossibile pensarlo come una
modalità operativa della ragione. Le conseguenze educative sono drammatiche:
ragazzi in balìa del proprio sentire, fluttuanti tra umori opposti,
costantemente sostenuti in questa patologica dipendenza dai modelli mediatici,
incapaci di conoscere la realtà fino alla certezza e alla stabilità.
Sta usando espressioni molto
forti.
In un’accezione generale il
sentimentalismo è una malattia della ragione, che dopo aver separato il sentire
dal capire, invece di assolutizzare la mente (razionalismo), assolutizza il
corpo e il suo sentire (sentimentalismo). In un’accezione particolare il
sentimentalismo è una malattia del percorso conoscitivo bloccato al parametro
valutativo, che ho definito dell’alleanza: “Mi ama o non mi ama!”, come quando
si sfoglia una margherita.
Torniamo alla ragione. Pare che
lei stia quasi difendendo il primato della «ragione emotiva» sulla razionalità.
Ma che cosa può mai essere la prima senza la seconda?
Non difendo il primato della
ragione emotiva sulla razionalità, tant’è che ho inserito il modo di operare
specifico della ragione emotiva in un insieme di modalità operative diverse,
che vanno dall’acquisizione del dato (osservazione, ascolto, ecc.) fino a una
capacità altamente inferenziale, che opera su parametri valutativi
esclusivamente umani come il senso e il valore delle cose, e che ho definito
ragione simbolica o segnica, a seconda che si utilizzi un’accezione di matrice
europea orientale o europea occidentale (che l’Europa respiri con due polmoni è
essenziale se si vuole capire che cosa sia una ragione allargata). Nel libro ho
dovuto prevedere maggiore spazio e spunti di approfondimento per la ragione
emotiva, solo perché su di essa si concentra la novità scientifica − tra le
teorie dell’appraisal −, ed editoriale. Non esistono attualmente altri modelli
esplicativi dell’allargamento della ragione.
Lei riporta una frase di Leonardo
da Vinci dagli Aforismi: «Ogni nostra cognizione prencipia da sentimenti». In
altri termini, Come avviene in noi la scoperta della realtà?
«Osservare non basta – obiettava
Paul Cézanne agli impressionisti –, bisogna anche pensare». Come aveva capito
il pittore francese contrapponendo il modellare al modulare, una volta che si è
osservato il dato non si è ancora stabilita con esso una relazione. Allora è
necessaria una diversa modalità operativa della ragione, che stabilisca proprio
questa relazione col dato. E questa è esattamente la funzione della ragione
emotiva. Infatti per conoscere occorre essere interessati alla realtà, essere
curiosi, appassionati, attratti, desiderosi; occorre avere l’ardore di Ulisse;
occorre avere il gusto delle cose, sentirne il sapore. «Chi ha raggiunto lo
stato di non meravigliarsi più di nulla dimostra semplicemente di aver perduto
l’arte del ragionare e del riflettere» diceva Max Planck. Per conoscere
occorrono la fiducia e la speranza che il mondo sia conoscibile.
Per conoscere, dunque, occorre
aprirsi alla realtà con simpatia…
O con empatia, come diceva Edith
Stein, o con amicizia, come diceva Agostino («Nihil nisi per amicitiam
cognoscitur»), o con l’eros, che con il proprio calore scioglie l’immobilità
della razionalità verso ciò che è autentico e vero, come scriveva Pavel
Florenskij ai propri figli. Occorre amare il reale, come dice Jean Luc Marion.
Occorre gratitudine, come riconosceva il premio Nobel per l’economia John Nash.
Occorre entusiasmo, come scriveva Eugen Fink. Da Eschilo a Mounier occorre
soffrire. La ragione emotiva è una capacità di giudizio lungo tutta la
traiettoria vitale ed esistenziale, costituita dall’alternativa tra due
possibili valutazioni opposte e inconciliabili, che non lasciano spazio a
opzioni terze: un costante out-out, un sì o un no di fronte al reale. Qui il
pensiero cresce, perché è vivo, vitale e immediato, in relazione con una realtà
viva. Qui la ragione si allarga, perché l’affettività la investe: «Dietro il
pensiero c’è tutto l’insieme delle inclinazioni affettive e volitive» scriveva
Lev Vygotskij.
Dunque, l’emotività, che ha un
radicamento biologico, giocherebbe un ruolo fino alla più alta sfera
spirituale, estendendosi a tutto lo spettro del nostro paragone con la realtà,
culminante in ciò che lei chiama ragione segnica. Può spiegare?
«Per la psicoanalisi l’uomo è
spinto, alle spalle, da pulsioni, dall’Es. Per la psicoanalisi ogni energia si
riduce a quella delle pulsioni, essa è potenza istintiva, per essa ogni vis è
una vis a tergo» scriveva Viktor Frankl, che ricordava come lo stesso Freud
fosse il primo a dire che la vis a tergo è la sola cantina dell’edificio antropologico.
Io ho mostrato principalmente due cose: come questa vis a tergo sia espressa
linguisticamente nel nostro codice linguistico da sole cinque categorie su
quattrocento esprimenti l’intera vis, che nelle sue vette più alte diventa
quella «forza di reazione dello spirito» che innalza l’uomo al di sopra di
qualsiasi condizionamento e lo rende capace di opporsi ad ogni tipo di
circostanze esteriori. Ho poi mostrato come questa forza dello spirito
associata alle più complesse capacità razionali, che sono di carattere
induttivo, crei una modalità operativa della ragione, che ho definito simbolica
o segnica, perché capace di cogliere il tutto del reale. Senza una ragione
segnica l’uomo non potrebbe fare scoperte scientifiche, come non potrebbe
scrivere sinfonie.
Chi ha separato il sentire dalla
sua capacità valutativa?
Ogni razionalismo di vecchia o di
nuova data. E ogni razionalismo si fonda sul dualismo, comunque lo si voglia
interpretare. Separa il sentire dall’intelligĕre chiunque viva in sé una
disunità, una disorganicità, una schizofrenia.
Andiamo alle implicazioni
educative del discorso fatto finora. Leggo: «la natura dell’opera educativa è
visibile, più che nella pietà Vaticana, nella pietà Rondanini».
Nella pietà Vaticana si vede il
risultato dell’opera, mentre nella pietà Rondanini si vede lo scalpello che
lavora su un pezzo di pietra in parte ancora informe, da cui la pietà come i
Prigioni non sono ancora completamente usciti in tutta la loro «possenza» –
possiamo coniare questo termine? Ogni essere umano già a due giorni di vita, o
a tre mesi, a otto anni o a sedici è questa possenza che deve essere liberata
dalle strettoie di ciò che non è. L’uomo è fatto per meravigliarsi e stupirsi,
non per aver paura; è fatto per la curiosità e l’interesse, non per la noia; è
fatto per amare, non per odiare ed essere odiato; è fatto per sperare, non per
la più cupa disperazione. In una parola è fatto per il bene. Da ogni essere
umano chi educa deve tirar fuori ogni più intima fibra di questa possenza, che
è l’uomo, fatta per quell’infinito, che è la realtà.
Qual è a suo modo di vedere lo
stato dell’educazione oggi per come è abitualmente concepita e attuata?
L’insegnamento di qualsivoglia
disciplina oggi è nella gran parte dei casi attestato al livello unicamente
istruttivo, necessario certo, ma non sufficiente a costituire il tuttotondo
della professione docente. Ad esempio l’ultima modalità di reclutamento degli
insegnanti è nuovamente un concorso a cattedre, che valuta esclusivamente la
conoscenza della propria disciplina, come se chi conoscesse a memoria la
Commedia dantesca fosse di per ciò stesso capace di insegnarla. Dal novero
delle capacità di insegnamento mancano all’appello – semplificando in maniera
un po’ riduttiva – quelle formative ed educative.
Può farne un esempio più
specifico?
Laddove si sottragga
ragionevolezza ai bisogni dell’alunno, all’interesse e al gusto per le cose (i
Programmi didattici del ’55 parlavano del «gusto di imparare»);
all’ammirazione, allo stupore, alla meraviglia che la realtà desta; alla
fiducia in se stessi che i ragazzi fragilissimi devono poter acquisire; alla
loro sana inquietudine, alla stima che noi adulti dobbiamo loro, all’entusiasmo
di fare piuttosto che alla cupezza dello sconforto, alla percezione del senso e
del valore che le cose hanno, lì si insegna secondo una modalità che imbalsama
la ragione fin nelle sue modalità strettamente razionali, che hanno invece
bisogno di flessibilità. Infatti i ragazzi oggi tendono a essere rigidi, a non
usare duttilmente la ragione, ma a proiettare sulla realtà opinioni
preconfezionate assorbite acriticamente un po’ ovunque.
Quando un insegnante è anche
educatore?
Quando sa che cosa fa la
differenza tra un mero individuo e un io, e poi quando attraverso quella
porzione di realtà delimitata dalla propria disciplina tira fuori «per via di
togliere le schegge di marmo» − come diceva Michelangelo − quella libertà,
quella consapevolezza, quel pensiero robustamente e intelligentemente critico,
che è l’io in ogni frangente della vita.
Le potrei dire che riesce, in un
sol colpo, a fare piazza pulita di «progressisti» e «conservatori». Dica invece
dove hanno ragione, nei limiti del possibile, cioè di una comprensione
parziale, gli uni e gli altri.
Chiediamoci: perché un bambino
contento impara di più? Perché l’essere umano è fatto per la gioia, come mise
in musica Beethoven nella sua ultima sinfonia, tre anni prima di morire. La
contentezza è una delle ventidue modalità con cui il nostro codice linguistico
esprime la gioia. La gioia è un pezzo del bene per cui siamo fatti già a
partire dal nostro livello organico (sul versante neurobiologico
dell’apprendimento è stata dimostrata una maggiore trasmissione sinaptica in
condizioni di gioia, e viceversa una minore trasmissione sinaptica in stati di
tristezza. La trasmissione sinaptica incentiva la capacità di apprendimento).
La coscienza del bene che siamo e per cui siamo fatti è «conservatrice», il
tendervi è «progressista».
Il libro contiene una parte rilevante
che risulta a prima vista assai singolare. È quella dedicata ad una mappatura
delle emozioni o meglio alla loro «categorizzazione». Qual è il senso di questo
lavoro situato in terra di confine tra filosofia, antropologia e linguistica?
Ciascuno di noi fa la propria
unica e irripetibile esperienza del mondo, e poi la comunica, attraverso gli
strumenti categoriali, concettuali e linguistici, che eredita parlando una
certa lingua. E la lingua è veicolo ed espressione della cultura di un popolo e
contiene la memoria della sua esperienza, come ha scritto Benjamin Whorf, e in
quanto tale guida e modella i processi di conoscenza. Ad esempio i giapponesi
hanno codificato amae, l’esperienza del sentirsi dipendenti, protetti e curati
all’interno di una relazione, che noi italiani sperimentiamo certo, soprattutto
da piccoli nel rapporto con la madre, ma che poi non abbiamo circoscritto
categorialmente. Forse non pensiamo al dipendere da chi ci ama come elemento di
maturità umana, e quindi facciamo esperienza della realtà privi di questo
strumento di comprensione e di espressione, che è la relazione di dipendenza da
chi ci ama. Oppure gli Utku, una popolazione eschimese dell’Artico canadese,
non ha alcun termine per la rabbia, perché la ritiene espressione di un modo di
relazionarsi immaturo. Invece sui 2.600 termini che in italiano esprimono il
sentire, il 14 per cento è dedicato proprio alla rabbia. E quindi un parlante
italiano tende a fare esperienza della realtà in termini oppositivi. Oppure
vogliamo dire che solo il 2 per cento del nostro lessico relazionale è
destinato a farci fare esperienza di felicità?
Allora quali considerazioni si
possono fare a proposito del lessico emotivo dell’italiano?
Esso ci rivela inequivocabilmente
che siamo poco felici, ma proviamo anche poco senso di colpa; che non riusciamo
ad attribuire valore al bene, mentre lo attribuiamo più spesso al male; che
facciamo cioè fatica a fare un’esperienza esclusivamente umana della realtà sia
in termini positivi che negativi. E questo dato è importantissimo sotto il
profilo educativo: quel che manca è il processo che dall’individuo e dal
soggetto fa emergere la persona, ovvero l’educazione, che evidentemente non
manca solo oggi, ma è mancata in tutti i dieci secoli circa che hanno contribuito
a codificare la nostra lingua.
Le cronache scolastiche sono
piene di una situazione−tipo che potremmo riassumere così: docenti demotivati
incapaci di intercettare l’interesse di giovani ormai estranei al mondo degli
adulti, e definiti come apatici o assorbiti in un mondo a parte. Da cui
l’improponibilità e l’irrilevanza del «passato», da Omero a Ungaretti passando
per Picasso. Che ne pensa?
Che insegnano in maniera
razionalistica ovvero con metà della ragione. Quando io metto in campo o vedo
mettere in campo la curiosità, l’interesse, l’aspettativa, la passione, il
gusto, la sensibilità, la sicurezza, lo stupore, la meraviglia, la simpatia, la
stima, l’entusiasmo, la gioia fino alla felicità, cioè fino alla percezione del
senso delle cose, i ragazzi si riaccendono, si illuminano, e fanno con
naturalezza passi da gigante ritenuti impossibili.
A conclusione del suo lavoro, a
proposito della necessità di ricostruire una ragione integrale, lei riserva un
posto speciale alla bellezza. Perché?
Dalla riduzione della ragione
ovvero della capacità conoscitiva, ho mostrato come derivi la condizione in cui
i ragazzi si trovano oggi, caratterizzata sul versante razionale da dualismo,
esperienzialismo, concettualismo, logicismo, tecnicismo, determinismo, meccanicismo,
progressismo, scetticismo, agnosticismo, nichilismo, relativismo, positivismo,
materialismo, utilitarismo, fideismo; e sul versante relazionale da
riduzionismo, sentimentalismo, emotivismo, edonismo, estetismo, moralismo,
soggettivismo, individualismo, narcisismo, collettivismo, cinismo, eticismo,
manicheismo, fondamentalismo…
Mi sta facendo un elenco di
parole!
Non è un elenco di parole ma la
pesantissima eredità che gli adulti hanno consegnato loro. Rispetto a questa
situazione le principali risorse educative diventano – in sintesi − la ricerca
della verità come scopo del conoscere; lo sviluppo di tutte le capacità
elaborative e astrattive, e in particolare della capacità di giudizio critico;
l’esperienza della bellezza. Sarebbe più corretto parlare di esperienza di
tutti i trascendentali (esperienza del bene, di essere amati e stimati, della
verità delle cose, della giustizia, ecc.), ma alcuni di essi (come verità,
giustizia, ecc.) sono stati così profondamente ideologizzati, da risultare
concettualmente ambigui, mentre la bellezza possiede una concretezza
irriducibile.
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