Avvenire.it, 9 aprile 2011, L'OSPITE - Perché dire sì alle norme sulle Dat - Una legge per arginare la giustizia creativa - Francesco Rutelli - senatore e presidente di Alleanza per l’Italia
È giusto approvare in tempi rapidi una legge sulle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento? Sì. Il Parlamento deve migliorarne il testo, ma non rinunciare alla propria precisa responsabilità.
Altrimenti, ogni giudice italiano si troverà a dover interpretare 'creativamente' questa difficile materia. E, proprio per l’assenza di una specifica disciplina, nell’orizzonte di principi troppo generali ed astratti, determinare decisioni contrastanti.
Nei primi anni Duemila – allora presiedevo la Margherita – ho proposto le convergenze più larghe possibili, in Parlamento, per regolare gli effetti del progresso scientifico e tecnologico in diversi settori eticamente sensibili: oltre alla procreazione assistita, le Dat, le banche dati del Dna ed altre questioni biopolitiche. Non ci sono riuscito. Ricordo che proprio sulle Dat disponevamo di una buona base di partenza, grazie al parere formulato nel dicembre 2003, all’unanimità, dal Comitato nazionale di bioetica. Ma il tema ha attirato l’attenzione della classe politica – ed emozione e partecipazione nell’opinione pubblica – solo a seguito delle dolorosissime vicende Welby ed Englaro. Così, oggi, il legislatore si trova a reagire agli eventi, e non a guidare i processi, in mezzo a cambiamenti che si fanno via via più complessi: il terreno migliore per chi non vuole risolvere, ma strumentalizzare; per chi vuole costruire le proprie piccole fortune politiche su un campo di crescenti asprezze, incomprensioni, denigrazioni.
Non si tratta di materie che riguardano solo i cattolici. Un cristiano concorre a questi dibattiti con un’ispirazione coerente ed esigente. Si tratta di temi che attraversano la filosofia da venticinque secoli, e che indicano la funzione più alta della politica. Essa dovrebbe occuparsi degli ultimi; anche di chi è solo in un letto d’ospedale, con un soffio persistente di vita e magari abbandonato dal prossimo. È qui che scatta una speciale responsabilità pubblica. È qui che si misura un dovere squisitamente laico di ascoltare, e di servire. Sono alcune migliaia le persone attualmente in stato vegetativo. Poco sappiamo circa la loro soglia di comprensione, ma sappiamo che molte volte con sguardi, cenni, movimenti corporei interpellano l’umana solidarietà di quanti li circondano. Sono accuditi, lavati, nutriti da familiari, assistenti, infermieri, suore. Non è infrequente che queste persone si risveglino. Si eserciterebbe verso di loro la pretesa di accanirsi? Di imporre loro, come si legge spesso, un «sondino di Stato»? È necessario valutare bene se quella persona, che talvolta nessuno reclama più, in quel letto in fondo alla sala, debba vedersi interrotto il supporto vitale. In tempi nei quali la considerazione verso la dignità dell’esistenza umana sembra impennarsi verso il basso, non dobbiamo accettare a cuor leggero, secondo un’impostazione dogmatica dell’autodeterminazione, la pretesa di pianificare, come in un supermercato, le decisioni che toccano responsabilità e costi del fine vita.
A Montecitorio, ci sono ancora dei nodi irrisolti nel testo della legge sulle Dat; in particolare, riguardano alcuni aspetti del consenso informato, che non deve diventare l’alibi 'burocratico' per mancate assunzioni di responsabilità mediche, né può imporre al sanitario scelte contro scienza e coscienza. Deve definirsi meglio cosa sia possibile scrivere – e cosa no – nelle Dat, distinguendo in particolare tra le situazioni di stato vegetativo e le patologie degenerative progressive: i malati di Alzheimer e Parkinson, pur cadendo in stadi di inconsapevolezza, richiedono trattamenti sanitari diversificati. Le settimane che la Camera ha davanti a sé prima delle votazioni sulla legge devono indurre il relatore a rendere il testo più semplice e più concretamente applicabile, così da evitare contenziosi che porterebbero proprio nella direzione di consentirne interpretazioni "creative" (con i successivi, ineluttabili conflitti e contenziosi giurisdizionali).
Su molti punti c’è una larga condivisione: non si deve aprire la porta ad alcuna forma di eutanasia. È intoccabile la prerogativa decisionale del paziente cosciente. Non si può stabilire un principio di autodeterminazione assoluto che spinga ad obbligare il servizio sanitario alla soppressione della vita umana. Si devono affermare il ruolo e la responsabilità crescenti del medico di fronte alle rapide trasformazioni scientifiche. La buona applicazione di cure palliative è in grado di accompagnare in modo dignitoso, evitando e limitando le sofferenze, gli ultimi tratti di una vita umana che si concluda senza accanimenti.
Una maggioranza di parlamentari, che include diversi colleghi di Alleanza per l’Italia, condivide anche il divieto generale di interrompere il sostentamento al paziente incosciente. I miei personali convincimenti sono noti, e li ho espressi nelle votazioni al Senato. Tutti sappiamo che questa materia non è riconducibile a vincoli di partito; sarebbe riduttivo, perché ci coinvolge tutti, nel nostro ruolo di rappresentanti delle istanze generali e dei bisogni sociali dei cittadini, e interpella le coscienze libere e responsabili di ciascuno.
Ora tocca alla Camera dei Deputati: decida di decidere, senza altri rinvii.
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