Per tutelare la vita serve un testo senza ambiguità - Nel confronto alla Camera,e nel successivo passaggio al Senato, c’è spazio per interventi di messa a punto quanto ad aspetti specifici della legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento. Un testo indifferibile, ma che può essere ripulito da qualche possibile «zona grigia», di Alberto Gambino, Avvenire, 28 aprile 2011
Una legge sull’alleanza terapeutica medicopaziente e sulle direttive anticipate di trattamento si rende indifferibile. L’incertezza in materia sta infatti provocando confusione tra medici e inquietudine tra pazienti.
Si pensi soltanto all’ultima decisione della Cassazione di venti giorni fa, con la quale si è stabilito che il medico non debba operare in quei casi-limite che configurano interventi sproporzionati, anche dinanzi a una richiesta espressa del paziente. Con la conseguenza drammatica che, a causa dell’oggettiva difficoltà di valutare quali trattamenti siano effettivamente proporzionati davanti a un quadro clinico estremamente complesso, taluni medici potrebbero finire coll’optare per il non intervento piuttosto che correre rischi di responsabilità risarcitorie. Ed è facile prevedere – per converso – che tale stato di cose porterà all’incremento di denunzie di pazienti e familiari per omissione di soccorso, con l’effetto di aumentare le richieste di risarcimento, questa volta a carico delle strutture sanitarie colpevoli di non avere prestato adeguata assistenza.
Anche per questo, dunque, risulta davvero urgente la promulgazione della legge sulle Dat e sul consenso informato.
Occorre allora mettere definitivamente a punto alcuni aspetti del disegno di legge attualmente pendente alla Camera dei deputati.
Quelli che seguono appaiono profili che meritano particolare adeguamento.
La riconducibilità del fine vita ai soli casi di morte prevista come imminente. L’esigenza di una legge sul fine vita è avvertita in particolare per evitare che si riproducano nel nostro ordinamento vicende come quella di Eluana Englaro, in cui a una paziente giovane, in stato vegetativo persistente – che avrebbe dunque vissuto ancora a lungo – è stata interrotta l’idratazione al fine di provocarne la morte.
Sottesa a tale drammatica scelta vi è la messa in discussione della dignità della vita delle persone in stato di incoscienza prolungata nel tempo. L’attuale disegno di legge, con una serie di affermazioni condivisibili, mira a tutelare la vita umana quale «diritto inviolabile e indisponibile, garantito anche nella fase terminale dell’esistenza e nell’ipotesi in cui la persona non sia più in grado di intendere e di volere» (articolo 1.1, lett. a).
Problematica appare, allora, l’indicazione di due categorie di pazienti, quelli «in stato di fine vita» e quelli «in condizioni di morte prevista come imminente», al fine di prescrivere per ambedue le situazioni l’astensione del medico da alcuni trattamenti (articolo 1.1, lett. f). Con tale distinzione si intende affermare che le situazioni di «fine vita» non coincidano con quelle di «morte imminente», comprendendo nel primo caso proprio situazioni di degenza persistente e presumibilmente irreversibile: perché allora trattarle come quelle di persone che stanno sul punto di morire? Se così fosse, si disattende la motivazione più profonda della legge: evitare che le persone in stato di lunga e, forse, irreversibile degenza postulino minori esigenze di cura rispetto a quelle degli altri pazienti.
Il ruolo sempre e soltanto curativo dei medici e l’inesigibilità di interventi interruttivi di trattamenti salvavita. Il disegno di legge considera chiaramente le attività del medico e di chi assiste le persone «esclusivamente finalizzate alla tutela della vita e della salute nonché all’alleviamento della sofferenza» (articolo 1.1, lett. c). Ora, tuttavia, non è chiarito cosa accadrebbe nel caso di (legittima) revoca, da parte del paziente cosciente e consapevole, rispetto a un trattamento sanitario in atto e, in particolare, se i trattamenti salvavita (tipo il ventilatore artificiale applicato a Welby) siano configurabili come trattamenti vitali (articolo 2.5). In questi casi, infatti, il medico non si limiterebbe a non somministrare più una terapia, secondo i legittimi voleri del paziente, ma opererebbe attivamente il distacco di un presidio salvavita. Essendo il ruolo del medico esclusivamente curativo (come bene espresso nell’articolo 1.1, lett. c), appare coerente specificare che la revoca al trattamento è inefficace quando implichi da parte del medico un atto interruttivo di presidi salvavita.
Il grado qualificato di colpa medica per i trattamenti straordinari. Proprio i princìpi ispiratori della legge, che vedono nel ruolo curativo del medico un pilastro portante, implicano necessità di chiarimenti in ordine alla sua responsabilità, drammaticamente sottolineata proprio dalla sentenza di Cassazione richiamata in premessa. In particolare, per tenere fede all’obiettivo della piena tutela della salute e della vita del paziente e di evitare inerzie o mancati interventi dettati dal timore di responsabilità risarcitorie, occorre chiarire la diversa soglia di responsabilità professionale del medico nel caso in cui si trovi davanti a interventi curativi di straordinaria portata. In questi casi dovrà rintracciarsi, per la punibilità del medico, il più impegnativo elemento della colpa grave.
Il superamento della regola del consenso informato nei casi di pazienti incapaci. In punto di consenso informato espresso da chi ha la tutela del paziente, occorre preliminarmente sgomberare il campo da un equivoco: mentre per il tema delle direttive anticipate di trattamento c’è da sanare un vulnus provocato da una certa giurisprudenza creativa, che, a partire dal caso Englaro, ha legittimato alcune forme di testamento biologico, diverso è il tema del consenso informato (che riguarda, dunque, la persona in stato di coscienza) rispetto al quale l’attuale giurisprudenza, in tema di incapacità legale del paziente, non arriva definitivamente ad assegnare un ruolo di sostituzione delle decisioni del malato in capo ai soggetti che ne hanno la tutela (tantomeno all’amministratore di sostegno come invece intende l’articolo 2.6 del progetto di legge). Il disegno di legge introduce quale regola generale "innovativa" che tutti i trattamenti siano somministrati soltanto a seguito della manifestazione del consenso anche con riguardo ai soggetti incapaci, per mezzo di loro rappresentanti legali (articoli 2.6 e 2.7). Tale regola non può però assurgere a principio assoluto, che rischia di "burocratizzare" il consenso informato, trasformandolo in un meccanismo formale, la cui assenza, in caso di incapacità del paziente, finirebbe coll’impedire al medico di agire in tutti i casi di urgenza oggi pacificamente consentiti dal codice deontologico (secondo il quale, il medico deve agire – anche contro la volontà del rappresentante legale – se vi è «grave rischio per la salute» dell’incapace e non soltanto se vi è «pericolo di vita» per «evento acuto» o «grave complicanza» come prevede in modo riduttivo l’articolo 2.9).
Gli strumenti di tutela effettiva per impedire prassi di abbandono terapeutico degli incapaci. Ancorché il disegno di legge preveda che la decisione di tutore, amministratore di sostegno e genitore sia comunque volta alla «salvaguardia della salute» del soggetto incapace (articoli 2.6 e 2.7; finalità cui è tenuto, nel testo della Commissione, anche il personale sanitario, articolo 2.8) potrebbero, tuttavia, verificarsi in concreto casi di diniego del consenso da parte del soggetto che ha la tutela, configurabili come illeciti civili, se non penali, ma che comunque non consentono di per sé al medico di attivare i trattamenti adeguati. Per scongiurare tali zone grigie, senza tutela effettiva, occorre allora chiarire che i casi di inerzia e di inadempimento dei soggetti legittimati a esprimere il consenso, tali da attivare l’obbligo di segnalazione al pm da parte del medico, al fine di ottenere l’autorizzazione giudiziaria (una puntualizzazione in tal senso è opportuna all’articolo 8.3), comprendono anche il dissenso che appaia contrastare con la tutela della vita e della salute del paziente.
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