Il colpo di mano dell’«amministratore di sostegno» - Sicuri che una legge non serve, o che può attendere? Nel vuoto normativo attuale, a fissare regole con possibili effetti eutanasici non ci sono solo le sentenze del caso Englaro ma anche i decreti dei tribunali che hanno deformato una figura giuridica alla quale viene ora attribuita l’autorità di negare al paziente terapie salva-vita, di Ilaria Nava, Avvenire, 28 aprile 2011
Da qualche anno a questa parte si sono verificati casi di persone che hanno voluto esprimere in via anticipata i trattamenti a cui volevano o non volevano sottoporsi attraverso la nomina di un amministratore di sostegno. Si tratta di una figura introdotta con la legge 6/04 che prevede che «la persona che, per effetto di un’infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare». La legge stessa prevede che «l’amministratore di sostegno può essere designato dallo stesso interessato, in previsione della propria eventuale futura incapacità, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata».
Ad esempio, con il decreto depositato il 5 novembre 2008 il giudice tutelare di Modena ha accolto la richiesta di un uomo che, ancora in buone condizioni di salute, ha chiesto di nominare la moglie «proprio amministratore di sostegno», ossia «garante delle sue volontà di fine vita», in caso di malattia invalidante. Le volontà da lui espresse prevedono che «l’individuato amministratore di sostegno potrà, in suo nome e avvalendosi di una già ottenuta autorizzazione del Giudice tutelare, negare il consenso a praticargli determinate terapie», in particolare «rianimazione cardiopolmonare, dialisi, trasfusione, terapia antibiotica, ventilazione, idratazione o alimentazione forzata e artificiale, in caso di malattia allo stato terminale, malattia o lesione traumatica cerebrale, irreversibile e invalidante, malattia che lo costringa a trattamenti permanenti con macchine o sistemi artificiali che impediscano una normale vita di relazione».
Lo stesso tribunale pochi mesi prima aveva già provveduto ad accogliere la richiesta di una donna affetta da una malattia neurodegenerativa, che aveva chiesto di nominare il marito amministratore di sostegno. La donna aveva lasciato per iscritto la propria volontà di rifiutare le terapie e il giudice, nell’accogliere tale domanda, specificò che tale intenzione avrebbe dovuto essere autorizzata anche in casi «rispetto a quali il Giudice si formi il convincimento, sulla base di elementi probatori convincenti, che la complessiva personalità dell’individuo cosciente era nel senso di ritener lesiva della concezione stessa della sua dignità la permanenza e la protrazione di una vita vegetativa». Un’affermazione, quest’ultima, che si ispira chiaramente a quanto stabilito dalla Cassazione nel 2007 con la sentenza Englaro, dove in mancanza di volontà scritte si è interpretato lo stile di vita e la personalità di Eluana per dedurne la volontà di morire. L’ultimo caso è quello del gennaio scorso, in cui il Tribunale di Firenze ha accolto il ricorso di Franco Santoni, un cittadino in piena salute che attraverso la moglie, nominata dal tribunale suo amministratore di sostegno potrà in futuro esercitare il diritto a far valere il suo biotestamento.
Ma questi sono solo tre dei diversi casi – almeno una decina – in cui i giudici hanno sancito la legittimazione della figura dell’amministratore di sostegno quale interprete ed esecutore delle volontà in caso di perdita della coscienza, autorizzando di fatto qualsiasi forma di rifiuto dei trattamenti sanitari, anche se espressa in anticipo e fuori contesto. Un rischio che la legge in via di approvazione alla Camera cerca di arginare, prevedendo forme certe (e quindi con esclusione, per la ricostruzione della volontà del soggetto, di «eventuali dichiarazioni di intenti o orientamenti espressi dal soggetto al di fuori delle forme e dei modi previsti dalla legge») e margini di valutazione per il medico che non è considerato mero esecutore delle volontà del paziente ma professionista la cui azione è volta alla cura della persona in dialogo con il fiduciario.
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