La Dichiarazione anticipata è consenso disinformato
di Tommaso Scandroglio
19-04-2011
Le Dichiarazioni anticipate di trattamento (DAT) di cui tanto si parla in questo periodo sono quel documento in cui un soggetto, nella previsione di una patologia che potrebbe portarlo a versare in uno stato di incoscienza (coma, cosiddetti stati vegetativi, sindrome locked in), indica tra le altre cose a quali trattamenti vuole o non vuole essere sottoposto. In un precedente articolo avevamo messo già in evidenza la fragilità strutturale di questo documento e quindi la sua pericolosità per la salute del paziente. Oggi vogliamo porre in rilievo un altro limite di questo strumento di anamnesi: la sua inattualità.
Le DAT non possono essere vincolanti: perché?
Al fine di assegnare carattere vincolante alle DAT si richiama spesso la disciplina sul consenso informato, ma non si ricorda mai che il consenso (o la mancanza dello stesso) per essere vincolante, ex l. 78/833, deve essere formale e attuale. Le DAT sono documento sì formale ma non esprimente consenso attuale. Infatti queste sono state redatte molto prima che insorgesse la patologia invalidante. C’è un fronte medico-politico che fa sua questa obiezione, però aggiunge: “Riteniamo comunque valide le DAT sottoscritte dopo che la malattia ha già fatto la sua comparsa: SLA, tumori in fase terminale, malattie croniche, etc.”. Ma il problema rimane. Infatti nella costanza di una malattia grave se il paziente è vigile e cosciente le DAT non si applicano dato che si può ascoltare direttamente dalla voce del paziente i suoi desiderata.
Le DAT invece “scattano” al momento in cui una persona è incapace di intendere e volere. Proprio a motivo di questo frangente così delicato, che rivoluziona completamente il quadro clinico del malato e che comporta nuovi trattamenti sanitari, sorge il ben noto dilemma: “Nonostante ciò che c’è scritto nelle DAT, non può essere che il sig. Rossi abbia cambiato idea?”. Non c’è nulla da fare: il contenuto delle DAT è condannato a rimanere sempre obsoleto, sempre un passo indietro rispetto alla situazione presente, la quale esige che la volontà del paziente sia attualizzata, cioè declinata secondo le specifiche condizioni del momento. Con le DAT si vuole attualizzare un consenso che non può essere attualizzato perché fissato nero su bianco in un passato che seppur non remoto è irrimediabilmente diverso dal presente. Quindi queste dichiarazioni possono sì avere valore orientativo, ma non vincolante.
Consenso disinformato.
L’inattualità delle DAT poi porta con sé un ulteriore problema. Secondo la disciplina normativa il consenso ad un certo trattamento sanitario deve essere fornito ex post non ex ante le informazioni prestate. Prima ascolto il medico e poi decido. Con le dichiarazioni anticipate invece presto un consenso ad informazioni non ancora in mio possesso perché la patologia o lo stato di incoscienza, e quindi i relativi presidi medici da applicare, non si sono ancora verificati. E’ dunque un consenso disinformato. Ecco un altro motivo per non assegnare alle DAT carattere vincolante.
Il principio di disuguaglianza.
Veniamo ad un’altra obiezione: come oggi il paziente vigile può rifiutare le cure, così anche al paziente in stato vegetativo dovrebbe essere data la possibilità di rifiutarle. Sarebbe discriminatorio non permetterlo, cioè contrario al principio di uguaglianza. Risposta: il principio di uguaglianza afferma che occorre trattare i casi uguali in modo uguale e i casi diversi in modo diverso. Appare alquanto evidente che il caso del paziente vigile è diverso dal caso del paziente incosciente. Così come non è discriminatorio permettere che votino le persone dai 18 anni in su e vietarlo a quelli non maggiorenni: le due situazioni non sono sovrapponibili.
Non vincolanti ma legittimanti.
Tutte queste motivazioni hanno spinto gli estensori del disegno di legge sul fine vita, che in questi giorni è all’esame della Camera, a qualificare le DAT come documento con contenuto non obbligante per il medico. Però a questo punto sorgono due problemi. Il primo: le DAT potrebbero non essere vincolanti ma legittimanti, cioè esimenti della responsabilità del medico. Cosa vogliamo dire? Anche se ammettessimo che le DAT non sono vincolanti per il medico, queste in sede di giudizio potrebbero essere ritenute un documento con valore legale che tutelerebbe qualsiasi pratica medica anche quella eutanasica, una sorta di assicurazione professionale. Questo con facilità accadrebbe proprio perché una normativa che legittimasse le DAT sul piano del diritto assegnerebbe loro peso giuridico, cioè conferirebbe al medico l’immunità penale a motivo dell’applicazione, garantita dalla legge, delle volontà dell’estensore delle dichiarazioni anticipate. A motivo di questa legge le DAT da documento con valore meramente privato assurgerebbe a rango di vero e proprio atto giuridico con valore legittimante della condotta del medico.
Già oggi le DAT non sono vincolanti.
Secondo problema: perché serve una legge per sancire che le DAT non sono vincolanti quando già oggi non sono vincolanti? Si vuole assegnare carattere esclusivamente privato a questo documento, come documento orientativo e consultivo, quando già ora possiedono tale carattere. Legiferare su questo punto dunque è inutile, anzi rischioso. E’ proprio per questo motivo che in Commissione giustizia, ai tempi della discussione in Senato, spinse per la vincolatività: altrimenti perché fare una legge per assegnare valore neutro a tale strumento? C’è chi risponde: occorre una legge per imporre al medico almeno l’obbligo di consultazione delle DAT, cioè il dovere non solo di prendere visione del documento, bensì di tenerne conto.
Qualche contro-obiezione.
In primo luogo tale obbligo di consultazione è già previsto nel nostro ordinamento dalla Convenzione di Oviedo all’art. 9, convenzione già pienamente vigente da noi grazie alla legge n. 145 del 2001. In seconda battuta poi c’è da domandarsi: come facciamo a verificare che il medico abbia davvero tenuto conto dei desiderata dell’estensore delle DAT? Tramite una firma a piè di pagina? Ma questo ci direbbe solo che il medico – forse – ne ha preso visione, non che in coscienza abbia meditato sui voleri del paziente. La firma non certificherebbe con sicurezza che il medico abbia considerato attentamente il contenuto delle dichiarazioni. Il “tenere in considerazione” come è intuitivo è azione propria della coscienza, del foro interno, ambito che notoriamente sfugge all’indagine certa del dettato normativo. L’annuire del figlio discolo al papà che lo rimprovera non è garanzia che il bambino abbia ascoltato realmente le parole del genitore. La non verificabilità di questo adempimento, tra l’altro, porterebbe di conseguenza anche alla mancanza di relative sanzioni. Il luogo più appropriato allora per questa indicazione relativa alle DAT è quello non legislativo, ma quello disciplinare. E’ dunque sufficiente la prescrizione già contenuta nel Codice di Deontologia Medica all’art. 38 e nulla più.
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