I medici accettino le loro responsabilità di Assuntina Morresi, Avvenire, 14 aprile 2011
Non è vero che con una recente sentenza, la Cassazione ha detto «stop» a interventi chirurgici in casi estremi: ha piuttosto ribadito che il consenso informato sottoscritto dal paziente non toglie al medico le proprie responsabilità, perché spetta solo a lui l’ultima parola sull’adeguatezza delle terapie per i propri malati.
I fatto sono noti: tre chirurghi hanno operato una signora, gravemente malata di cancro, per tentare di stabilizzare la sua condizione e consentirle di vivere un po’ più a lungo di quanto diagnosticato. La signora voleva fortemente questo intervento, che però è andato male, e a seguito del quale lei è morta. Il procedimento giudiziario nei confronti dei tre li ha trovati colpevoli di omicidio colposo – condanna andata comunque in prescrizione – e l’intervento è stato giudicato un accanimento terapeutico, in violazione del codice deontologico professionale.
Non entriamo nel merito del caso specifico, sul quale non spetta a noi stabilire la responsabilità dei medici coinvolti, e l’opportunità di operare o meno in quel frangente. È invece sul significato che la Cassazione ha dato al consenso informato che è bene fare qualche ulteriore riflessione: a seconda del ruolo che gli si dà, infatti, possono derivare concezioni della professione medica assai diverse tra loro.
In altre parole: il consenso informato può essere considerato una dichiarazione di volontà del malato che il medico, o il servizio sanitario, ha l’obbligo di soddisfare? Meglio ancora: una richiesta consapevole di un paziente, pure ragionevole e pienamente comprensibile dal punto di vista umano, ma dubbia da quello medico, se esaudita, può sollevare i medici dalla responsabilità sull’opportunità dell’intervento stesso?
Secondo la Cassazione, no: questa sentenza riconosce che il consenso è un assenso, necessario, del paziente alla terapia proposta dal suo medico curante. Un «sì» consapevole e informato, perciò libero, ma non uno strumento di medicina difensiva da parte dei medici, un alibi per evitare la responsabilità ultima di giudicare e stabilire i percorsi terapeutici opportuni dei propri malati.
In altre parole, il consenso informato non può essere inteso come la certificazione, vincolante, della domanda di una specifica terapia da parte di un malato, per mettere al riparo i medici dai rischi di decisioni importanti e difficili, ma è l’unico strumento a disposizione per un rapporto fiduciario, non sbilanciato e non paternalistico, come avveniva in passato, fra medico e paziente.
Se il consenso informato si trasformasse in una dichiarazione di volontà da soddisfare, la professione medica si ridurrebbe a una prestazione di servizi «on demand», infinitamente lontana dalla tradizione ippocratica che ne ha disegnato la figura nel mondo occidentale.
Uno strumento tanto importante quanto delicato: la stessa formulazione dei consensi, la spiegazione che se ne dà, per quanto chiara ed esaustiva possa essere, non sempre può essere compresa in tutti i dettagli da una persona comune, non esperta del settore. La fiducia del paziente nei confronti del suo medico curante è innanzitutto nella sua onestà intellettuale nello spiegare nella massima trasparenza possibile il percorso terapeutico proposto, e l’assenso o meno a una cura dipende anche e molto dal modo in cui questa viene presentata.
I medici, notoriamente, esercitano una responsabilità enorme, quotidianamente: solo riconoscendola e accettandola possono poi, giustamente, chiedere a loro volta strumenti anche legislativi per proteggere e tutelare la loro serenità professionale.
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