martedì 3 maggio 2011

Senza accanimento né abbandono in una relazione di reciprocità di Giovanni Battista Guizzetti* - * Responsabile U.O. Stati Vegetativi Centro don Orione – Bergamo – da da Newsletter di Scienza & Vita n°46 del 29 Aprile 2011

Lo stato vegetativo, questo strano e per certi versi ancora misterioso modo di continuare a vivere, pone una domanda di relazione che sfonda ogni idea di convenienza, di utilità e di interesse, che trova le sue ragioni nel mistero della condizione umana.
Una relazione di cura dove la ragione e gli scopi, la prassi e il tempo riacquistano significati oggi smarriti dentro il mito dell’utilitarismo, dell’ efficienza, dell’autonomia e dell’aziendalizzazione sanitaria.
La ragione è la loro vita. Non la vita a tutti i costi in obbedienza ad astratti principi, ma la vita riconosciuta, accolta, tutelata e sostenuta nella sua fragilità. La vita definita non dal grave deficit, ma dal valore unico ed irripetibile che ogni essere umano è.
Si trovasse pure a vivere in condizione vegetativa. La prassi è quella della buona cura che dà risposta alle concrete e quotidiane esigenze fisiche e previene la comparsa delle complicanze causate dall’immobilità, che non rinuncia mai a ricercare una modalità di comunicazione, che cerca di rimuovere una cannula tracheale, di rieducare alla deglutizione.
Perché anche solo un cucchiaino di gelato ingerito o uno spicchio di arancio succhiato possono diventare l’obbiettivo di una grande e desiderata conquista.
Una cura dove non c’è mai un momento in cui possiamo dire: ‘adesso basta fermiamoci, non c’è più niente da fare’, ma che in ogni momento sa trovare la cosa giusta da fare. 
Senza accanimento. Senza abbandono.
Il tempo è quello della vita, di tutta la sua durata. Solo l’osservazione prolungata e ripetuta, infatti, permette di porre la diagnosi di stato vegetativo e di valutarne l’evoluzione, di  accorgerci del riemergere di un contenuto di coscienza, di vedere un sorriso o uno sguardo che si gira verso una voce familiare o una mano che stringe la tua su comando.
Cosa può comunicarci e darci l’esistenza di una persona in stato vegetativo? È possibile ancora trovare un significato in quella vita, significato per lui stesso e per noi? Non si può stare tanti anni di fronte a questa condizione senza che queste domande siano poste. Anche solo semplicemente poste come riflessione. Con uno sguardo  aperto.
Anche quando il limite, la fatica, la sofferenza e la disabilità sembrano avere l’ultima parola, sembrano dominare su tutto. La nostra esperienza di cura dello stato vegetativo è la storia di una relazione possibile fatta di reciprocità. Certamente fatta di un dare, cioè un donare, ma anche di un prendere, cioè un ricevere. Di un cammino  durante il quale abbiamo cercato, ci siamo interrogati senza censurare nessuna domanda, abbiamo sofferto e gioito, abbiamo fatto tutto quanto potevamo per dare sostegno e conforto.
Un cammino umano. Una storia semplice, che racconta di una cura a basso contenuto tecnologico, ma ad elevato impegno umano ed assistenziale, non ingenua, che sa di non poter guarire, ma che sa prendersi cura sempre.
La persona in stato vegetativo manifesta nel suo esistere la condizione esistenziale più spoglia, ma in un certo senso, più essenziale perché di lui resta solo ciò che non potrebbe essere mai surrogabile: il suo stesso essere.
Fare qualcosa di assolutamente inutile, in termini efficientistici od utilitaristici, non sempre è privo di rilievo. In una società ci  sono delle realtà che ci dicono del livello di civiltà di una convivenza. La disponibilità a prenderci cura delle persone in SV è certamente una di queste.
L’assistenza erogata a questa condizione è espressione dell’indisponibilità a rassegnarci troppo facilmente e troppo fatalisticamente all’esperienza del male e del dolore che comunque, con buona pace di tutti, saranno sempre presenti nella nostre esistenze. La possibilità, anche di fronte alle manifestazioni più sconvolgenti della nostra finitezza, di poter riconoscere un bene e un valore che comunque permane,  significa riaffermare l’assoluta dignità della nostra condizione umana.

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