Le domande necessarie per una legge di buon senso di Rodolfo Proietti* Professore Ordinario di Anestesia e Rianimazione Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma -da Newsletter di Scienza & Vita n°46 del 29 Aprile 2011
Le proposte di legge sulle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento (DAT) si propongono alcuni importanti obiettivi: favorire l’autonomia decisionale del paziente anche quando non più capace di intendere e volere; consentire al medico curante un giudizio sulla proporzionalità delle cure anche tenendo conto dei desideri precedentemente espressi dalla persona malata; evitare l’accanimento terapeutico. Nel DdL “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento” si fa anche esplicito riferimento al divieto di chiedere qualsiasi forma di eutanasia e si sottolinea il fatto che comunque le dichiarazioni anticipate non possono essere vincolanti per il medico curante.
Pur condividendo gli obiettivi delle DAT ritengo doverose alcune riflessioni sulla difficoltà che avranno i medici curanti ad applicarle al “letto del paziente” considerando l’enorme numero di variabili che condizionano le decisioni terapeutiche, l’impossibilità di esprimere con certezza una prognosi sulla durata e sull’esito di una patologia nel singolo malato e gli inevitabili dubbi sulla corretta interpretazione delle volontà precedentemente espresse in assenza di malattia.
Regolamentare con una legge la relazione di cura potrebbe essere utile in alcuni casi ma potrebbe avere conseguenze difficilmente prevedibili e fortemente negative per molti altri malati.
I contenuti delle DAT saranno fortemente condizionati da informazioni provenienti da più fonti (mass-media, amici, familiari) non sempre rigorosamente scientifiche e spesso sostenute dal timore che una medicina tecnicistica e disumana possa impadronirsi del proprio corpo.
Inoltre le DAT verranno redatte a seguito di un colloquio un medico di fiducia che, verosimilmente, non sarà lo stesso che dovrà prenderle in considerazione anni dopo.
Il medico che dovrà decidere sul limite delle terapie in accordo alle volontà precedentemente espresse dal paziente si chiederà: quali informazioni sono state date a questa persona sulle probabilità di recupero? Quali alternative terapeutiche sono state suggerite? E’ cambiato qualcosa da allora sulle concrete possibilità di cura? Il dissenso informato riportato nelle DAT esprime la volontà a non essere sottoposto a terapie sproporzionate oppure il desiderio di interrompere una vita ritenuta non degna di essere vissuta per grave e persistente disabilità (vedi rifiuto della nutrizione, idratazione, antibioticoterapie o interventi chirurgici negli Stati Vegetativi Cronici)?
La risposta a queste domande condizionerà la decisione finale del medico. Ma la risposta sarà personale: di quel medico curante. E la risposta sarà diversa ed estremamente variabile da medico a medico perché la medicina si fonda su argomentazioni di tipo probabilistico ed il giudizio clinico non raggiunge mai il livello della assoluta certezza. Rendere vincolanti le DAT farebbe perdere al medico la sua autonomia decisionale ed esporrebbe la persona malata a decisioni di sospensione delle cure che potrebbero andare ben oltre le sue volontà. Ma la non vincolatività – certamente il male minore – comporterà decisioni diverse in pazienti affetti dalla stessa patologia che potrebbero destare sconcerto nell’opinione pubblica.
Oggi i cittadini vogliono sapere se esiste o meno un limite alla loro autonomia nel richiedere o rifiutare una terapia. Nel contempo i medici vogliono sapere se hanno (o non hanno) il dovere di dar seguito a qualsiasi azione richiesta dal paziente (attiva od omissiva) anche se comporta la perdita della vita quando la morte non è attesa ed è evitabile. Siamo sicuri che la proposta di legge sulle DAT sciolga ogni dubbio su questi due aspetti fondamentali della relazione medico/paziente?
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