CONFLITTO E POTERE L’ETÀ BIOPOLITICA – di Maurizio Ferraris, La
Repubblica, 3 ottobre 2012, http://www.dirittiglobali.it/
Una raccolta di interviste a
Roberto Esposito su questi temi filosofici
Nelle interviste raccolte nel
volume Dall’impolitico all’impersonale (Mimesis), Roberto Esposito, tra i
filosofi italiani più conosciuti all’estero, ricapitola il suo percorso degli
ultimi dieci anni, concentrato intorno alla nozione di “vita”, e lo articola
secondo tre direttrici.
La prima è per l’appunto
l’elaborazione teorica della nozione di “biopolitica”, ereditata da Foucault ma
sviluppata secondo percorsi originali. Dopo l’età del liberalismo e della
borghesia, nello scenario che si apre con i totalitarismi, ma non si chiude con
essi, siamo entrati in una fase biopolitica, quella di un potere che si
esercita direttamente sulla vita. Rispetto alla impostazione di Foucault,
tuttavia, Esposito propone una biopolitica “affermativa”, che non consiste soltanto
nel controllo e nella censura, al limite nel diritto di vita o di morte, ma è
piuttosto l’espressione della vita che fa valere i propri diritti nella
politica.
In questa affermatività si
inserisce una seconda ipotesi, che Esposito ha articolato più di recente, e che
riguarda i caratteri originali della filosofia italiana, considerata come
“pensiero vivente”. Seguendo una linea che da Machiavelli, attraverso Bruno,
Campanella, Vico, Croce, giunge a Gramsci e all’operaismo, il pensiero italiano
si sarebbe caratterizzato per un peculiare interesse per la politica in quanto
espressione di un conflitto vissuto come un elemento positivo (vitale,
appunto), e che non trova composizione nell’ideale di uno stato.
Questo carattere di lungo periodo
sta, secondo Esposito, alla base di un fenomeno recente, affrontato in più di
una delle interviste, e cioè il successo internazionale di una “Italian
Theory”, di matrice principalmente politica, che sembra aver preso il posto
della “French Theory” che ha furoreggiato negli Stati Uniti, nei dipartimenti
di letteratura comparata e di studi politici nell’ultimo trentennio del secolo
scorso. Quella che viene a disegnarsi è una filosofia della storia meno
iperbolica di quella tracciata nell’Ottocento da Bertrando Spaventa, ma più
credibile. Per Spaventa la filosofia, cacciata dall’Italia dai roghi
dell’Inquisizione, era migrata in Europa fecondandone il pensiero, sicché
quello che tornava nell’Italia dell’Ottocento, la filosofia di Hegel, non era
che una metamorfosi della filosofia italiana, una restituzione. Più
modestamente, con Esposito, potremmo osservare che la tradizione di filosofia
civile italiana si è rivelata particolarmente adatta a dare una forma
esplicitamente politica alle tesi del post-strutturalismo francese.
Tuttavia, se portiamo sul terreno
concreto una nozione come quella di “biopolitica”, emerge un problema. A ben
vedere, è proprio nelle primissime forme di potere che la natura biopolitica
dell’autorità si manifesta allo stato puro. Il re era anzitutto chi controllava
i depositi dei beni, basti pensare che l’etimo di “tiranno” è il capo della
fattoria, colui che controlla la produzione del formaggio (tyròs), e lo scettro
evolve del tutto naturalmente dal bastone del pastore. E un sistema di governo
che è risultato modellizzante per millenni, quello dei faraoni (raffigurati
anche come animali feroci), trae la sua origine dallo sfruttamento delle
alluvioni periodiche del Nilo. Senza ovviamente dimenticare la biopolitica
negativa, cioè la tanatopolitica, che si dispiega nelle ecatombi rituali degli
Aztechi.
Che queste ecatombi abbiano
potuto riproporsi nel cuore del Novecento e al centro di un’Europa che si
riteneva civilizzata fornisce certo ottimi argomenti per mostrare la
persistenza della biopolitica. Ma dubito che questa constatazione di fatto
possa in qualche modo risolversi in una legittimazione di diritto. Certo, c’è
un senso in cui, come nelle tragedie di Shakespeare, la biopolitica sembra non
solo il nucleo originario, ma anche l’essenza, del politico. Ma c’è anche un
senso in cui lo sforzo della politica deve consistere nell’allontanarsi da
questa origine. Insomma, più che l’essenza della nuova politica post-liberale,
la biopolitica mi sembra essere il periodico riemergere di una forza arcaica,
di un dionisiaco con cui fare i conti, ma a cui è sempre possibile, e doveroso,
contrapporre l’apollineo della forma, della struttura, della norma.
Lo stesso Esposito, del resto,
osserva a giusto titolo che la vita non è mai “nuda vita”, ha sempre una forma,
che la protegge da se stessa e dagli altri o, nella terminologia di Esposito,
la “immunizza”. Vorrei conclusivamente suggerire quale, a mio avviso, sia la
forma principale di questa immunizzazione. Nel momento in cui il faraone cessa
di venir rappresentato come un animale feroce si fa avanti la figura dello
scriba, del contabile, del burocrate. È la nascita dei documenti, un evento,
nella storia delle società umane, di cui difficilmente si può sopravvalutare
l’importanza, perché segna il sorgere di una sfera istituzionale fatta di
norme, di leggi, di contratti che regolamentano la vita. Certo, si potrà sempre
obiettare che anche attraverso i documenti si può esercitare la violenza, e la
storia è piena di testimonianze in questo senso. Resta che si tratta dell’unico
modo con cui le società umane hanno provato a vestire la “nuda vita”, dando
forma alla forza, e difendendo la vita dalla sua bulimia.
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