CULTURA - IDEE/ Sloterdijk, il "nipotino" di Nietzsche che vuol rifare il Superuomo di Antonio Allegra - lunedì 4 aprile 2011 – il sussidiario.net
Peter Sloterdijk è uno dei protagonisti del dibattito filosofico attuale, un autore con notevole talento stilistico e provocatorio, difatti molto letto con punte da vero bestseller almeno in Germania, ma anche dotato di indubbio rigore teorico e prestigio. Dopo l’irruzione sulla scena culturale con Critica della ragione cinica (1983), da svariati anni le sue opere hanno messo a fuoco l’idea di una trasformazione radicale della condizione umana: si tratta di un tema presente fin dall’ambiziosa trilogia di Sfere (dal 1998), poi esplicitato in una celebre conferenza del 1999 (Regole per il parco umano, raccolta in Non siamo ancora stati salvati, del 2001) e oggi di nuovo ripresentata con Devi cambiare la tua vita (2009), da poco tradotto.
Non si tratta di un tema innocuo o ispirato ad un ideale lineare e poco impegnativo di “trasformazione”; al contrario, l’obiettivo è di ascendenza superomistica e nietzscheana. Non a caso qualche anno fa è nata una furibonda e istruttiva controversia: secondo molti, Sloterdijk ha affermato l’esigenza di un’evoluzione tecnocratica o di un vero e proprio allevamento dell’uomo in stirpe differenti. È stata questa, in sostanza, l’accusa che Habermas gli ha mosso, in una polemica virulenta tra protagonisti di primissimo piano. Ovviamente, che il contesto originario della discussione fosse quello tedesco non è ininfluente per le risonanze e i retropensieri della contesa, che toccava corde sensibili.
Quello che è certo è che le tesi di Sloterdijk contengono aspetti davvero radicali. A suo avviso l’impatto della modernità richiede ormai di congedarsi dall’antiquato sogno umanistico e di elaborare senza remore tradizionali una ambizione postumana. Regole per il parco umano in questo senso è emblematico: in un quadro in cui l’umanesimo viene dichiarato fallito nel suo obiettivo reale, che viene identificato con il controllo e l’addomesticamento delle spinte sostanzialmente bestiali presenti nell’uomo, e dunque ci si congeda da esso, ciò che ne risulta è un’esplicita intenzione di costruzione o produzione di uomini nuovi, ove riforme genetiche, pianificazione biologica, selezione prenatale, sono, apertamente, possibilità antropotecniche tra le altre.
È interessante, tuttavia, cogliere in quest’ultimo libro degli accenti parzialmente diversi. Il sottotitolo apparentemente resta nel quadro di idee appena tracciate: sull’antropotecnica. Si tratta ancora e sempre di una produzione dell’uomo. E tuttavia, tale produzione si orienta in direzione delle venerabili idee della conversione (metanoia), del lavoro su di sé, della pratica filosofica nel senso più profondo: uno sforzo difficile di autoperfezionamento ed elevazione. Con una punta di malignità, si potrebbe forse ipotizzare che Sloterdijk si sia in parte e tacitamente ritratto dal lato più scandaloso implicato dalle proprie idee, entrando viceversa in rapporto almeno analogico con le riflessioni dell’ultimo Foucault: la filosofia come pratica piuttosto che teoresi, caratterizzata da prescrizioni quasi rituali volte alla costruzione diva. Un quadro interessante, che se non altro mostra che disfarsi del soggetto è più difficile di quanto molti non pensino; e che mostra la ripresa di un certo “aristocraticismo disciplinato”, non lontano - ad esempio - dalle esperienze degli ordini religiosi (Sloterdijk ricorda che i primi monaci si dicevano “atleti di Cristo”). In un certo senso l’autore tedesco rivaluta l’ascesi come sforzo antigravitazionale, per così dire: elevazione anziché abbassamento.
Resta vero che l’implicazione reale di discorsi del genere è anche quella delle disastrose illusioni di creazione dell’uomo nuovo. Da un lato il nazionalsocialismo, dall’altro le elaborazioni pedagogiche all’interno della visione bolscevica. Non è neanche il caso di ricordare gli esiti reali e tragici di questa ideologia. Sloterdijk cerca adesso, en passant, di smarcarsi da questa ipoteca, ma senza tuttavia mettere fino in fondo e sul serio in discussione il suo presupposto costruttivista.
E il motivo è chiaro. Può essere espresso formulando una domanda radicale: è in generale possibile una verticalità nello scenario in cui si muove l’autore tedesco? Come in Nietzsche, l’uomo tende verso il proprio superamento - ma, nel quadro del nichilismo, non ha a rigore a disposizione un senso dell’alto e del basso, un orientamento che permetta il discernimento. In codesto quadro, in effetti, è anzitutto scomparso il vertice superiore e il polo d’attrazione per eccellenza, il divino. La tensione agonistica, addirittura atletica, di cui ci parla Sloterdijk in quest’ultimo libro, rischia di restare uno sforzo immobile o implosivo; la sottolineatura pur appropriata del ruolo della ritualità, della ripetizione (dell’allenamento, appunto), è in sé assolutamente neutra. L’evoluzione stessa è qui per principio neutra: la stessa definizione di un über è in effetti un esempio di wishful thinking.
Più chiaramente: in un’epoca che non ha un’immagine dell’uomo riproporre la tradizione greca della fioritura umana o quella cristiana del cammino di perfezione ed elevazione, risulta contraddittorio o velleitario. La trasformazione ha un senso se possiede un orientamento, altrimenti non è che girare a vuoto. E “mettersi in forma”, in tutti i sensi dell’espressione, è possibile solo se di questa forma si ha teleologicamente un’idea. Altrimenti resta solo, come si diceva, uno sforzo genericamente costruttivista.
Sloterdijk va comunque letto cogliendone lo spessore al di là della provocazione. Il tema del postumano o transumano ha oggi una presenza davvero significativa, che trova anche altre numerose espressioni teoriche, più o meno serie: è necessario prenderlo in considerazione, pur nei frequenti limiti. Si tratta infatti di uno degli aspetti teoricamente ed eticamente cruciali della scena contemporanea, poiché in esso ne è dell’immagine che abbiamo e proponiamo dell’uomo.
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