Avvenire.it, 16 marzo 2011 - Dire sì alla legge sulle Dat - Certi di poche grandi cose di Roberto Colombo
Quando il dibattito pubblico tocca le questioni fondamentali della vita e della morte umana è inutile trincerarsi dietro schieramenti culturali, politici o religiosi per non essere coinvolti nella mischia e batterci per ciò che portiamo nella ragione e nel cuore. E neppure affidare ad allusioni o frasi fatte quel giudizio che ognuno coltiva dentro di sé e ci vogliono strappare dai denti sul treno o al lavoro, davanti a un caffè, o usciti dalla chiesa, la domenica mattina. La realtà della vita e della morte è sempre 'nostra', anche quella degli 'altri', sempre drammatica (è meglio così, altrimenti sarebbe una tragedia), e non la si può scansare a buon prezzo: sta lì, dentro di noi e dinanzi ai nostri occhi. Ci provoca, scuotendoci dal torpore della coscienza e dall’oscurità dell’intelligenza come null’altro. Sarebbe da vigliacchi – mi si passi il termine – fare come il sacerdote e il levita che sulla strada verso Gerico s’imbatterono nell’uomo ferito dai briganti e passarono oltre, voltando la faccia. Non furono i dottori della legge e i predicatori della città a salvarlo dalla morte, ma un quisque de populo, un uomo semplice della provincia, la Samarìa, dal cuore e dalla ragione spalancati sulla realtà della vita, propria e altrui.
Alcuni giorni fa Avvenire ha pubblicato l’appello al Parlamento di un gruppo di intellettuali che chiedono di non rinviare una decisione che riguarda tutti i cittadini: la regolamentazione delle dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario. Non è il manifesto di un circolo di specialisti. Gli 'addetti ai lavori' sono stati utili per chiarire i termini del problema e prospettare ipotesi di soluzione. Adesso è tempo che ciascun cittadino prenda posizione e si faccia sentire. Per questo serve essere certi di poche, grandi cose. Quelle che contano davvero nella vita e nella morte. Quelle che nessuna testata giornalistica o coalizione politica potrà mai cancellare dalla realtà e dalla ragione, perché la prima si ribellerebbe e la seconda si sentirebbe tradita.
Quando queste evidenze ed esigenze elementari sono oscurate da convenienze utilitaristiche, che negano i diritti fondamentali dei soggetti più deboli e fragili, o vengono calpestate da un esercizio arbitrario del potere giudiziario in ordine alla loro vita e alla loro morte, una legge non è solo utile, ma necessaria per il bene comune. Per quanto imperfetta possa essere, è necessaria perché ognuno (ancora sano o già malato, paziente o medico, parente o giudice), paragonandosi con quanto prescrive, non decida prima di aver preso in considerazione alcuni fattori della realtà che la legge richiama, trascurando i quali è impossibile decidere secondo retta ragione.
La prima cosa è che nessuno è padrone della vita dell’uomo. La vita è un bene indisponibile: non può essere oggetto di contrattazione tra il cittadino e chi è chiamato a prendersi cura di lui. Ogni terapia esige il consenso informato del paziente, ma il rapporto tra malato e medico non può prevedere che quest’ultimo ne provochi intenzionalmente la morte, sia pure su richiesta del paziente stesso.
La seconda cosa è che vi sono malattie inguaribili, ma non malattie incurabili. Anche quando ogni terapia risulta inefficace o arreca al paziente più malessere che benefici (ed è ragionevole sospenderla), resta ancora aperto il campo delle cure della persona, privandola delle quali la sua sofferenza crescerebbe, sino a condannarla a morte certa. Le forme più elementari del prendersi cura comprendono l’idratazione e l’alimentazione: sospenderle quando sono ancora efficaci nel nutrire il malato è un atto di abbandono della persona, contrario allo scopo della medicina e nemico del bene fondamentale e comune della vita. Infine – lo ha recentemente ricordato anche il cardinale Bagnasco – quella sulla sospensione dei trattamenti sanitari non è una battaglia teologica ma una questione 'laica', di buon senso e di ragionevolezza nel modo di concepire e praticare la cura di ciascuno di noi, quando è ammalato.
Tutto qui: poche, grandi cose di sempre. Se fossero ricordate e rispettate da tutti, una legge sarebbe inutile o perfino dannosa. Ma così non è, e non ce ne si può lavare le mani.
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