sabato 26 marzo 2011

Avvenire.it, 26 marzo 2011 - Fine vita: tutelare i diritti basilari, non ogni tipo di richiesta - Una legge «giusta»

Nell’attuale dibattito sulle «Dichiarazioni anticipate di trattamento» (Dat) c’è un’obiezione ricorrente mossa da quanti sono contrari all’impianto del testo in discussione alla Camera.

L’obiezione formulata in modo semplice suona così: perché impedire per legge a coloro che volessero porre fine alle proprie sofferenze di poterlo fare, se questa scelta fosse fatta quando si è ancora pienamente consapevoli? In fondo – dicono – si tratterebbe di una possibilità per chi lo volesse, e non costituirebbe un obbligo per alcuno. Come si vede, la questione verte direttamente sull’eutanasia che – non dimentichiamolo – rimane l’obiettivo reale di alcuni tra quelli che avrebbero voluto una legge capace di introdurla in Italia, magari solo in alcuni casi, in modo da rompere la presunzione a favore della vita che regge oggi il nostro ordinamento, legittimando più tardi interventi legislativi più forti in suo favore.

L’argomentazione alla base dell’obiezione è quella classica dell’incremento della libertà, e nella sua semplicità sembra disarmante: chi vuole può anticipare la sua morte per evitare le sofferenze della parte finale della propria vita, chi non vuole continua a ricevere le cure appropriate alla sua condizione.
La semplicità apparente di questa soluzione misconosce gravemente la finalità delle leggi che la società si dà. Le leggi infatti debbono essere giuste: sono tali quando realizzano e incrementano i diritti veri della persona umana e non ogni tipo di richiesta, anche se questa per nobilitarsi si fa chiamare diritto.

Abbiamo già ampiamente argomentato su queste pagine in merito alla non vincolatività di dichiarazioni espresse "ora per allora". Qui ci preme rilevare che nella materia di cui si discute la legge per essere giusta deve garantire il diritto a vivere. Più precisamente essa deve tutelare l’interesse e il diritto della persona a vivere fino al termine naturale della propria esistenza.

Non deve invece tutelare il diritto a morire, che non esiste. Vale la pena ricordare che l’inesistenza del diritto a morire non è un’affermazione illiberale di chi è contrario all’eutanasia. Essa è contenuta nelle sentenze delle più prestigiose e autorevoli Corti di giustizia. La Corte suprema degli Stati Uniti ha stabilito l’inesistenza del diritto a morire quando si è pronunciata su una legge dello Stato dell’Oregon. Nella stessa linea di negazione di tale diritto si è posta la Corte di giustizia europea, rispondendo alla richiesta di eutanasia di una cittadina britannica.

Altro elemento importante perché la legge sia giusta sono le disposizioni volte a tutelare le persone più deboli e al mantenimento delle decisioni del fine vita nell’ambito delle scelte di interesse pubblico. È proprio l’ambito pubblico, con il suo favor vitae, che permette di proteggere il valore della vita di tutti, fino al suo termine naturale, mentre lo scivolamento nell’ambito privato affiderebbe il fine vita alle scelte più arbitrarie.

Ritornando infine all’obiezione libertaria, occorre ricordare che il disegno di legge in discussione non impone nulla a nessuno. Infatti non è prevista alcuna forma di alimentazione forzata per le persone in stato di coscienza. Se non vogliono l’alimentazione con la Peg o il sondino, i pazienti coscienti possono rifiutarla: nessuno può imporgliela.

Non bisogna quindi imbrogliare le carte accusando questa legge di violare la libertà delle persone.
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