La norma? Nel segno del dialogo - di Claudio Sartea - l’osservatorio – Una «giusta» soluzione giuridica deve far incontrare la volontà del paziente con l’etica clinica del medico. E il consenso non può essere finalizzato a richieste letali - Avvenire, 31 marzo 2011
Anche il pudore ha una sua rilevanza civica. Nel dibattito che sta accompagnando da più di due anni l’elaborazione della normativa sul cosiddetto fine vita, anche gli autori più favorevoli al permissivismo avevano fino a poco tempo fa preferito non sbilanciarsi tanto da parlare apertamente di eutanasia. In tal modo, poteva vantare qualche ragione chi accusava di precipitazione quanti sostenevano, in realtà a buon diritto, che una certa concezione del testamento biologico equivaleva all’introduzione legale dell’eutanasia in Italia. Ora però il ventre del cavallo di Troia si è spalancato e vengono allo scoperto molti fautori espliciti dell’eutanasia. Una sincerità sconcertante dilaga: non si tratta già di dare dignità legale alle anteriori volontà del morente incosciente, ma di imporre a chicchessia, con la forza di un diritto sanzionato legalmente, una richiesta di morte.
Qui però viene fuori un dilemma, che affonda le proprie radici nel senso stesso del diritto e della norma giuridica. È difficile negare che l’orizzonte giuridico sia caratterizzato dal consenso: secondo alcuni, più attenti alla sostanza delle cose, un consenso sulla natura dell’uomo, che ne fonda e garantisce le giuste relazioni; secondo altri, più formalisti, un consenso su regole condivise che tutti s’impegnano ad accettare. In entrambi i casi, il consenso mira a un qualche bene: un bene comune che alimenti l’umana fioritura, nel primo caso, o nel secondo caso più superficialmente un contesto ove sia possibile coltivare in pace il proprio interesse individuale. Siccome sembra difficile convincersi che in generale il porre fine volontariamente a una vita possa essere considerato un bene, ha qualche significato pensare a un consenso mirante a essa? In altri termini: ha senso ipotizzare una norma legale che costringa qualcuno a subire un’altrui volontà ritenuta ingiusta?
Chiaramente, casi di accordo tra paziente (e familiari) e medico si possono sempre dare: sia nel senso «fisiologico», della richiesta/promessa di cura, sia in quello, che possiamo definire «patologico», della richiesta/promessa di morte. È agevole tuttavia supporre che non siano questi i casi bisognosi di disciplina legale, o tali da sollevare contenzioso giudiziario. La regola giuridica, se mai, viene invocata quando tale accordo manca: solo che l’orientamento eutanasico per natura propria spinge all’estremo la tensione derivante dal dissenso. Da una parte c’è il paziente, che indica le condizioni alle quali intende essere soppresso; dall’altra c’è il medico, che deve e vuole fare i conti con la sua scienza e la sua coscienza, e di conseguenza sa di non poter assecondare richieste letali.
Sergio Cotta anni fa aveva già spiegato che tale situazione di tensione non può conoscere una «giusta» soluzione giuridica: una norma legale o attribuisce potere al paziente, così togliendo libertà (e responsabilità deontologica) al medico, o attribuisce potere al medico, ridicolizzando l’autonomia del paziente e lasciandolo alla mercé del sistema sanitario. Anche da questo punto di vista la legge ha una sua plausibilità: nel riconoscere diversi princìpi dell’etica clinica più avanzata (consenso informato, alleanza terapeutica, autonomia del paziente e dell’operatore, e così via), stabilisce un vincolo di legittimità sui contenuti dell’azione medica e della richiesta di cura, mediante il divieto di sospendere la nutrizione artificiale, che ha il preciso scopo di sconfortare i guerrieri che scendono a frotte dal cavallo di Troia.
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