Pensate a questo semplice comma… di Antonio Socci, Da “Libero”, 5 marzo 2011
Vorrei lanciare un appello da queste colonne, non come giornalista o intellettuale cattolico, ma come padre di Caterina che tanti hanno conosciuto per la dolorosa vicenda che si trova a vivere.
Il mio è un appello a tutti i parlamentari, di tutti gli schieramenti, al di là delle divisioni ideologiche, politiche o culturali. Chiedo di approvare subito la legge sulla (cosiddetta) “Dichiarazione anticipata di trattamento” e approvarla così com’è.
Ci sono molti motivi per i quali personalmente giudico questa legge necessaria. Non si tratta solo di evitare che si verifichino casi analoghi a quello di Eluana Englaro. Ci sono molte altre ragioni.
Io però voglio qui spiegarne una sola, di puro buon senso e di salute pubblica, tale che può essere condivisa perfino dai più accesi fautori dell’eutanasia.
La materia in questione è trattata al comma 6 dell’articolo 4. Che recita testualmente: “In condizioni di urgenza o quando il soggetto versa in pericolo di vita immediato, la dichiarazione anticipata di trattamento non si applica”.
E’ un aspetto che è passato finora inosservato. Ma per me è essenziale perché mi sono trovato a vivere la circostanza terribile dell’emergenza e del “pericolo di vita” imminente di una figlia.
E’ una situazione vissuta ogni giorno da tanti nostri concittadini.
Basterebbe questo semplice comma per fare di questa legge una preziosa barriera (a difesa della vita) da erigere al più presto.
Mi spiego.
Come si sa il più diffuso problema sanitario della nostra popolazione concerne le malattie cardiocircolatorie: infarto, ictus ischemico, arresto cardiaco (che da solo provoca 60 mila morti all’anno in Italia).
A questo tipo di eventi, che si manifestano come drammi improvvisi, dobbiamo aggiungere altre situazioni analoghe come l’ictus cerebrale, o il caso delle vittime di incidenti stradali. Sono tanti.
Il sistema sanitario cerca di organizzarsi sempre meglio per correre tempestivamente in soccorso di ognuno e salvargli la vita: nei centri urbani più efficienti sono riusciti a far sì che il 118 raggiunga in meno 8 minuti qualunque punto della città.
Infatti è sempre una lotta drammatica contro il tempo, perché in una manciata di minuti si gioca il destino di figli, di padri, madri, amici. Basta poco tempo e la persona che più ami al mondo è spacciata, è morta.
Ebbene, quel comma 6, dell’articolo 4 della legge, è preziosissimo. Anzitutto perché mette al riparo tutti i soccorritori. Dice loro: fate di tutto per salvare questa vita in pericolo, questo è il vostro dovere e non pensate ad altro.
E dice al sistema sanitario di organizzarsi sempre meglio, attrezzandosi con le tecniche di rianimazione più avanzate, per salvare vite umane.
Qualora non venisse approvata questa legge con questo articolo, qualora cioè si restasse nell’attuale vuoto legislativo, che sembra preferibile anche a persone sicuramente “pro life”, come il mio amico Giuliano Ferrara, cosa accadrebbe?
Secondo me lo scenario è questo. Senza una legge la sola cosa che resta sulla scena sono i cosiddetti albi di biotestamenti istituiti da diversi Comuni italiani che al momento non hanno alcun valore giuridico, ma che – si può facilmente prevedere – qualora saltasse la legge fornirebbero materia alla giurisprudenza per accogliere altre richieste analoghe al caso Englaro o al caso Welby.
Così la legge finirebbe per essere scritta dalle sentenze della magistratura anziché dal Parlamento.
E’ facilmente prevedibile che qualcuno – per paura di riportare danni permanenti e invalidanti – possa scrivere nel suo biotestamento “non rianimatemi”, secondo la formula che oggi è diventata uno slogan negli Stati Uniti.
E si può prevedere che prima o poi qualcuno potrà fare causa a un medico soccorritore perché ha rianimato un malcapitato che – pur salvandosi – così ha riportato danni più o meno gravi, conseguenti – per esempio – a un arresto cardiaco. Qualcuno che aveva scritto nel biotestamento “non rianimatemi”.
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