«Decido io». Ma i capricci non dettano legge– Dalla 194 sull’aborto all’ipotesi di eutanasia legalizzata: così un’interpretazione deformata del principio di autodeterminazione ha influito sull’opinione pubblica. E ha distorto la lettura del dettato costituzionale sull’assistenza medica di Tommaso Scandroglio - Avvenire, 31 marzo 2011
Un erroneo concetto di autodeterminazione è il minimo comun denominatore di alcuni fenomeni sociali che fanno a pugni con i «principi non negoziabili». Nell’aborto lo slogan «l’utero è mio e decido io» sarà pur vecchio di quaranta anni ma è ancora alla base dell’interpretazione corrente della legge 194. Legge nata dalla pressione ideologica per «tutelare» simile esigenza. Se invece madre natura non dona il bebè tanto desiderato, si pretende di averlo per vie artificiali e inoltre si esige che sia perfetto e che la legge accondiscenda a tutto ciò. Non acconsentire a simili richieste sarebbe ledere la libertà della persona. Oggi infine tocca all’eutanasia: la vita è mia e determino io la soglia minima di apprezzabilità della stessa, i requisiti minimi di sopportabilità per determinare se è degna di essere vissuta. Come negli esempi precedenti si pretende una legge che dia tutela a questa autonomia e che la sacralizzi. Ovvio che in tale prospettiva le Dat non possono che essere vincolanti per il medico perché espressione di un libero volere che non deve conoscere limiti. Tale interpretazione del principio di autodeterminazione però non è proprio condivisibile alla luce della ragione e del diritto vigente. La libertà non può essere intesa in senso assoluto, cioè sciolta da qualsiasi legame. Bensì la nostra libertà è relativa, è agire in relazione a ciò che mi detta la natura umana la quale pretende che si conservi la vita e la salute, mia («no» all’eutanasia) e degli altri («no» all’aborto e alla fecondazione artificiale). Un’autodeterminazione vincolata dunque. Intendere in modo diverso il principio di autonomia significa comprimere e quindi svilire il naturale anelito al bene dell’uomo e non aver compreso la sua intima essenza, così come ricordò Benedetto XVI nell’ottobre del 2008 in occasione del Congresso nazionale della Società italiana di chirurgia: «L’esaltazione individualistica dell’autonomia finisce per portare ad una lettura non realistica, e certamente impoverita, della realtà umana».
Da ciò discende che le leggi dello Stato devono essere certamente al servizio dell’uomo, ma al servizio del suo vero bene, non delle sue vogliuzze, dei suoi capricci, dei suoi impulsi autolesionisti. Da parte del legislatore ci deve essere perciò un riconoscimento oggettivo delle esigenze naturali dell’uomo: la vita, la salute, la libertà, etc. E un rigetto di tutte quelle condotte che seppur volute dall’interessato stesso vanno a ledere questi suoi diritti indisponibili. Qualcuno potrebbe obiettare: «Ma l’articolo 32 della Costituzione sancisce il diritto al rifiuto delle cure». Non è così. Il rifiuto di trattamenti sanitari è una mera facoltà di fatto, non un diritto. Vi sono almeno due ragioni a sostegno di ciò. In primo luogo l’articolo 32 della Costituzione non sancisce un diritto alla non cura, ma impone un limite alla cure coattive prestate dallo Stato. È una differenza non da poco: porre un «alt» al dovere di cura da parte dei medici non significa corrispettivamente riconoscere un diritto soggettivo a rifiutare le terapie. In secondo luogo la salute è qualificata dall’articolo 32 come «diritto fondamentale».
Di conserva discende il fatto che non può esistere un diritto diametralmente opposto a questo, cioè il «diritto fondamentale» alla malattia, alla mancanza di salute. E quindi non ci può essere il diritto ad evitare quelle cure che potrebbero farmi recuperare il mio stato di salute intaccato da una patologia. Se dunque non si può predicare un diritto alla non cura, non esiste parallelamente nessun obbligo giuridico in capo al medico nell’interrompere le cure rifiutate dal paziente. Infatti laddove si predica un diritto ci deve essere un dovere in capo a qualcuno di soddisfare questo diritto. In buona sostanza la persona ha la facoltà di sottrarsi alle cure, ma non pretenda che il medico collabori con lui in questo intento. Puoi buttarti da un cornicione, ma non venire a chiedere che qualcuno ti dia una spinta. A questo punto però viene da domandarsi: il principio di autodeterminazione che fine fa? Il suo ambito di applicazione in realtà è assai esteso. Di fronte a una patologia il medico illustrerà tutte le possibili soluzioni e i rischi connessi. Starà poi al paziente, sostenuto dai familiari, decidere quale strada terapeutica intraprendere, conscio che l’unico limite impostogli è il rifiuto di cure salvavita.
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