FINE VITA - «Ecco perché le Dat non vincolano noi medici»
Nel dibattito sul concreto utilizzo delle dichiarazioni anticipate di trattamento si fa riferimento per lo più a quei casi in cui non si è in grado di esprimere la propria volontà. Per approfondire proprio questo specifico aspetto, ne parliamo con il professor Rodolfo Proietti, ordinario di anestesia e rianimazione presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma.
Professore, lei è impegnato da molti anni in prima linea nell’emergenza della rianimazione: ritiene che le Dat siano uno strumento utile?
Professore, lei è impegnato da molti anni in prima linea nell’emergenza della rianimazione: ritiene che le Dat siano uno strumento utile?
Difficilmente le Dat potranno essere utili al medico quando affronta una condizione di emergenza caratterizzata da un imminente pericolo per la vita del paziente. In questi casi il rianimatore ha solo pochi secondi a disposizione per decidere cosa fare o cosa non fare. Un tempo troppo breve per consentire di valutare le effettive volontà espresse dal paziente nelle Dat. Non a caso le Dichiarazioni anticipate di trattamento vengono redatte soprattutto per esprimere il rifiuto di terapie nella fase cronica di patologie fortemente invalidanti (quali lo Stato Vegetativo) e nella fase terminale di patologie inguaribili associate a dolore e sofferenza (quali le patologie neoplastiche).
Ma se arriva in Pronto Soccorso, in stato di incoscienza, una persona che ha precedentemente dichiarato di non voler essere rianimato, come si deve comportare il medico, in scienza e coscienza?
E’ necessaria un’attenta valutazione delle effettive volontà precedentemente espresse dal paziente. Potrebbe infatti aver dichiarato di non voler essere sottoposto a terapie rianimative o intensive in quanto consapevole di essere affetto da una patologia inguaribile, evolutiva, giunta alla suafase terminale. Confermata la presenza della patologia e rivalutata la prognosi il medico, in scienza e coscienza, se valuta la morte come inevitabile e attesa in tempi brevi deve astenersi da terapie rianimative oggettivamente sproporzionate per eccesso e, in questo caso, contrarie anche alla volontà del paziente. Diverso è il caso di una generica espressione di volontà a non essere sottoposti a terapie rianimative per il timore delle gravi complicanze che potrebbero conseguire alle manovre di rianimazione cardiorespiratoria (stati di incoscienza prolungati; gravi disabilità con perdita di autonomia). In questi casi le manovre di rianimazione debbono essere immediatamente iniziate; solo in una fase successiva potrà essere valutato il risultato delle terapie, verificata la presenza e la gravità di eventuali complicanze e riconsiderate le Dat per prendere decisioni sui limiti alle terapie da adottare.
Perché le Dat siano davvero funzionali al loro scopo è quindi essenziale che non contengano l’assoluta vincolatività?
Se lo scopo delle Dat è quello di consentire al medico di agire per il bene del paziente, anche tenendo nel massimo conto volontà precedentemente espresse, è evidente che non possono essere vincolanti. La vincolatività non consentirebbe più al medico di valutare in senso critico i concreti obiettivi delle dichiarazioni anticipate che sono fondamentalmente tre: la condizione patologica in atto, per gravità ed evoluzione, è effettivamente quella riportata nelle Dat? la prognosi della patologia è sostanzialmente variata rispetto al momento della registrazione delle Dat? il rifiuto delle terapie è rivolto prevalentemente a cure oggettivamente sproporzionate per eccesso (rifiuto dell’accanimento terapeutico) o è finalizzato ad interrompere la vita anche quando la morte è evitabile ed inattesa (richiesta di eutanasia)?
Si parla spesso del problema di assicurare l’alimentazione e l’idratazione che, come noto, sono sostegni vitali e non terapie, ma come ci si deve riferire rispetto alla ventilazione assistita?
Ovviamente nel caso di Dat il medico si troverà nella difficilissima condizione di dover decidere di non iniziare o sospendere una terapia finalizzata al sostegno di una funzione vitale senza poter condividere questa decisione direttamente con il paziente. Non possiamo dimenticare, ed è doveroso sottolineare, che soprattutto le decisioni terapeutiche finalizzate al mantenimento della vita si costruiscono e si prendono all’interno di una relazione tra curante e persona malata. Relazione fondata su un rapporto di fiducia che conduce ad una “alleanza terapeutica” tra chi chiede aiuto (la persona malata) e chi propone gli strumenti diagnostici-terapeutici più idonei e sopportabili (il curante).Nel momento in cui la persona malata è incosciente il medico si trova investito della grande responsabilità di decidere da solo. In questo caso le Dat possono aiutarlo soprattutto ad evitare terapie sproporzionate per eccesso. Ad esempio spesso i parenti dei malati ricoverati nei Centri di Rianimazione ci chiedono di fare “più del possibile” e di adottare terapie strumentali, compresa la ventilazione meccanica, anche per prolungare solo di qualche ora la vita dei loro cari. In questi casi, che sono i più frequenti, la disponibilità delle Dat faciliterebbe la decisione di limitare le terapie intensive. Quando la ventilazione meccanica diventa una terapia futile, non più benefica per il paziente, incapace di fermare l’evoluzione della malattia, allora può essere sospesa.Diverso è il caso in cui la ventilazione meccanica è giudicata dal medico utile, efficace, proporzionata, in grado di consentire il superamento di un evento acuto e di impedire una morte evitabile. In questo caso il medico deve poter esercitare il diritto di iniziare o proseguire la ventilazione meccanica nel rispetto del dovere deontologico, etico e morale di proteggere la vita.
In questi casi c’è chi parla spesso impropriamente di accanimento terapeutico e di futilità della cura: può aiutarci a capire? Alcuni ritengono che il giudizio di insopportabilità della terapia da parte del paziente sia sufficiente per definire l’accanimento terapeutico. Se cosi fosse si avrebbe il dovere di sospendere qualsiasi terapia ritenuta insopportabile dalla persona malata. In realtà possiamo parlare di accanimento terapeutico solo quando la terapia oltre ad essere inefficace (futile) è anche gravosa per il paziente aggiungendo inutili sofferenze. Proprio perché il termine “accanimento terapeutico” può generare confusione preferirei sostituirlo con “terapie sproporzionate per eccesso”.
Quando invece il paziente è in grado di intendere e di scegliere, chi deve decidere sulla proporzionalità delle cure? Il medico ha la completa discrezionalità oppure prevale l’autonomia e l’autodeterminazione del malato?
Le decisioni terapeutiche debbono essere condivise: non deve prevalere né la discrezionalità del medico né l’autodeterminazione del malato. All’interno della relazione terapeutica il medico non ha il compito di convincere a tutti i costi ma quello di mettere il paziente nella condizione di poter decidere per il suo bene in modo consapevole. Ma il percorso che porta alla decisione finale (accettare o rifiutare la proposta terapeutica) è estremamente complesso. Il medico deve avere la capacità di comunicare con la persona malata, e non solo di informarla, e soprattutto deve avere la capacità di comprendere i motivi che determinano il rifiuto di una terapia: è insopportabile la malattia o è insopportabile la vita? La “medicina di relazione” si fonda su questa capacità di entrare in sintonia con la persona malata, di farsi carico dei suoi bisogni e di affrontare insieme gli inevitabili momenti di disperazione.
24 marzo 2011
Emanuela Vinai
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Fonte: http://www.avvenire.it
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