La legge 194 sull’aborto una pianta maligna da estirpare alla radice - Comunicato
Stampa N. 131 - 5 Ottobre 2012 - http://www.comitatoveritaevita.it
La sentenza della Terza Sezione
civile della Cassazione che ha riconosciuto, a favore di entrambi i genitori,
dei fratelli e della stessa interessata, il diritto al risarcimento dei danni
per nascita indesiderata nei confronti di un ginecologo che non aveva
diagnosticato, durante la gravidanza, la sindrome di Down della bambina, così
impedendo alla madre di abortire, non può che suscitare in tutti amare
riflessioni.
La società non può non
interrogarsi sugli effetti che la legge 194 sull’aborto ha prodotto in oltre
trent’anni di vigenza, non solo sulla vita spezzata di milioni di bambini, ma
sulla coscienza sociale nei confronti dell’altro, del malato del disabile, del
debole.
Leggiamo il passo nel quale la
Corte giustifica l’estensione del diritto al risarcimento non solo alla madre e
al padre, ma anche ai fratelli; anch’essi, infatti, avrebbero subito un “danno”
dall’ingresso in famiglia di una sorellina con un cromosoma in più; per questi
fratelli, affermano i giudici (con un linguaggio un po’ ostico),
“non può non presumersi
l’attitudine a subire un serio danno non patrimoniale, anche a prescindere
dagli eventuali risvolti e delle inevitabili esigenze assistenziali destinate
ad insorgere, secondo l’id quod plerumque accidit, alla morte dei genitori.
Danno intanto consistente, tra
l’altro, nella inevitabile, minore disponibilità dei genitori nei loro
confronti, in ragione del maggior tempo necessariamente dedicato al figlio
affetto da handicap, nonché nella diminuita possibilità di godere di un
rapporto parentale con i genitori stessi costantemente caratterizzato da
serenità e distensione; le quali appaiono, invece, non sempre compatibili con
lo stato d’animo che ne informerà il quotidiano per la condizione del figlio
meno fortunato; consci – entrambi i genitori – che il vivere una vita
malformata è di per sé una condizione esistenziale di potenziale sofferenza,
pur senza che questo incida affatto sull’orizzonte di incondizionata
accoglienza dovuta ad ogni essere umano che si affaccia alla vita qual che sia
la concreta situazione in cui si trova”.
A parte la chiusura grottesca,
che richiama la “doverosa accoglienza nei confronti di ogni essere umano che si
affaccia alla vita, quale che sia la sua condizione”, dopo avere affermato che
la madre aveva il diritto di far uccidere quella bambina per il solo fatto che
era affetta da sindrome di Down; e prescindendo anche dalla definizione per le
persone Down di “vita malformata” (!), vediamo quale visione di vita, di
famiglia, di società, propugna la Corte. La famiglia ideale è, evidentemente,
quella di pochi figli sani che “succhiano” il tempo e l’impegno dei genitori,
per i quali il compito è quello di evitare loro qualsiasi “potenziale
sofferenza”.
L’amore all’interno della
famiglia è commisurato al tempo dedicato ai figli, alla salute e anche – perché
no? – ai soldi disponibili. Ecco che la nascita di una sorellina down è vista
come il disastro per l’intera famiglia: per la madre, che ne soffrirà nella sua
salute; per il padre, che vivrà accanto ad una donna sofferente; e per i figli,
a cui i genitori potranno dedicare meno tempo e che, talvolta, saranno meno
sereni e meno distesi; e già nel futuro la presenza di una sorella down
comporterà problemi economici, ma anche assistenziali: i fratelli dovranno
occuparsi di lei anche dopo la morte dei genitori.
Ma il quadro è realistico?
Davvero le famiglie che hanno un figlio down sono meno serene? Davvero i
genitori, costretti ad accudire la “figlia meno fortunata”, amano meno i suoi
fratelli?
E il rapporto tra i fratelli “più
fortunati” e quella “meno fortunata”? La Corte non ne parla, quasi che la
bambina down sia una bambola, incapace di ogni rapporto, destinata soltanto ad
essere soggetto passivo dell’accudimento da parte dei suoi familiari. Ma è
davvero così?
Questo passo della sentenza
dovrebbe essere da sola sufficiente a scandalizzare non solo le famiglie che
vivono questa esperienza, ma tutti noi. La Corte ci propone una visione della
vita in cui la malattia, l’handicap, la debolezza sono viste come un ostacolo alla
realizzazione piena dei soggetti sani, che devono essere “liberati” da ogni
“potenziale sofferenza”.
La legge 194 fornisce questo
strumento di liberazione: l’uccisione del bambino malato come diritto
soggettivo della madre e di tutta la famiglia.
Non possiamo accettarlo; dobbiamo
continuare a riflettere su questa legge omicida.
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