25 giugno 2012, L’aborto,
la legge 194, la Consulta - La scienza rimossa di Francesco D’Agostino, http://www.avvenire.it
Confesso
che non mi sono affatto meravigliato del fatto che la Corte Costituzionale
abbia rigettato come "manifestamente inammissibile" la questione di
legittimità costituzionale sollevata dal magistrato di Spoleto in merito
all’articolo 4 della legge sull’aborto. Né mi sono meravigliato dei commenti a
questa decisione, che tranne poche eccezioni hanno rispolverato temi più che
antiquati, come quello dell’esaltazione del diritto della donna a gestire in
modo autoreferenziale la propria gravidanza.
Anche
i commentatori più moderati favorevoli alla legge 194 si sono dimostrati
incapaci di elaborare riflessioni innovative, limitandosi a ricordare (ma senza
spiegare adeguatamente il perché) che i diritti del concepito non ricevono
tutela assoluta nel nostro ordinamento, poiché devono essere oggetto di
valutazione comparativa con altri valori di rilevanza costituzionale (come
appunto i diritti della donna), rispetto ai quali, in determinate condizioni,
sarebbero destinati a soccombere.
Peccato
che a fondamento di queste argomentazioni c’è la tesi, che afferma un primato
della donna (ovviamente ritenuta persona) rispetto al nascituro (ovviamente
pensato come chi persona dovrebbe ancora diventare, in attesa della nascita). È
una tesi biopolitica freddamente positivistica, non molto diversa da quella che
è stata utilizzata da Singer, Engelhardt, Giubilini ed altri ancora: questi
sostengono che nemmeno il neonato, privo come è di ogni capacità di intendere e
di volere, dovrebbe essere ritenuto persona a pieno titolo (con tutte le
conseguenze del caso, sino a quello che alcuni cominciano a chiamare
"aborto post nascita", cioè alla soppressione legale del neonato
magari per ragioni eutanasiche).
Ripeto:
nessuna meraviglia per la decisione della Corte. Nessuna meraviglia, ma una
profonda delusione. Sia dalla sentenza della Consulta che dai commenti
favorevoli che essa ha suscitato si percepisce come si sia cristallizzata in
Italia, dopo quasi trentacinque anni dall’approvazione della legge 194,
un’inadeguata percezione scientifica, etica e sociale dell’interruzione
volontaria della gravidanza.
Se
infatti facciamo un serio sforzo di riflessione su quello che abbiamo acquisito
in merito all’aborto negli ultimi decenni su questi tre piani – quello delle
conoscenze scientifiche, quello delle valutazioni bioetiche e quello delle
percezioni giuridico-sociali – non possiamo che restare estremamente
meravigliati di come nel nostro Paese si continui a pensare alla questione
dell’aborto come a una questione che sarebbe stata «chiusa» da una «buona
legge», una legge che, secondo uno slogan continuamente ripetuto, non si
dovrebbe più «toccare». Personalmente, e so di non essere il solo, sono
dell’avviso totalmente contrario: la legge sull’aborto andrebbe «toccata» (o
almeno «ritoccata»), perché non è possibile continuare a pensare all’aborto
come lo si pensava più di tre decenni fa.
Scientificamente,
abbiamo acquisito la consapevolezza che la distinzione (essenziale per la legge
194) tra l’aborto nei primi tre mesi di gravidanza e nei successivi sei mesi
non ha alcun fondamento. Bioeticamente abbiamo preso coscienza, in questi
ultimi trent’anni, dell’impossibilità di quella distinzione su cui si fonda la
legge 194, cioè di una distinzione logicamente coerente tra la dignità della vita
umana prima della nascita (dignità debole) e dopo la nascita (dignità forte):
in questo senso ci dovrebbe aver aperto definitivamente gli occhi la sentenza
della Corte europea di giustizia sulla brevettabilità dei prodotti delle
ricerche ottenute distruggendo embrioni umani.
Sociologicamente
e giuridicamente, un minimo di onestà intellettuale ci dovrebbe indurre a
riconoscere che la motivazione formale per la legalizzazione dell’aborto che si
legge nell’articolo 4 della legge 194 (un «serio» pericolo per la salute fisica
o psichica della donna) si è dimostrata negli anni, tranne pochi, rari casi,
assolutamente inesistente e comunque ritenuta non bisognosa di essere
effettivamente comprovata.
Nessuna
forza politica italiana, tra quelle che contano, vuole riaprire la questione
dell’aborto. E non la vuole riaprire non a seguito di decisioni conseguenti a
discussioni aperte, esplicite, innovative, ma piuttosto per una sorta di
diffusa percezione, che induce a pensare che sia meglio non riaprire una
questione così scottante. Gli psicanalisti parlerebbero di rimozione. Ma le
rimozioni producono necessariamente come proprio effetto le nevrosi e le
nevrosi sono sempre causa di sofferenza.
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