Editoriale: i pro life italiani giocano in difesa e la Corte
Costituzionale salva la 194, 27 giugno
2012 Corrispondenza romana - http://www.corrispondenzaromana.it
(di Mario Palmaro) Erano in
molti, fra gli storici oppositori alla 194 e all’aborto legale, a temere una
sentenza di rigetto da parte della Corte Costituzionale italiana. E così è
stato: la Consulta ha per l’ennesima volta rispedito al mittente un’eccezione
di incostituzionalità alla legge 194. Chiamati a pronunciarsi dal giudice di
Spoleto sulla costituzionalità della legge sull’aborto, i membri della suprema
Corte hanno proseguito sulla linea piratesca tenuta da quando in Italia
l’aborto è legale: evitare di entrare nel merito della legge, e così facendo
renderla intoccabile.
Stiamo parlando di una legge che
in 30 anni ha fatto 5 milioni di morti innocenti, abortiti a spese dello Stato
negli ospedali pubblici. Ma questa strage non sembra turbare il sonno dei
giudici, cattolici compresi, che in tutti questi lustri si sono susseguiti
nella prestigiosa funzione di difensori della Costituzione e dei suoi principi.
Qualcuno dovrebbe pubblicamente denunciare questa impressionante notte della
coscienza, che impedisce in particolare ai credenti – ma anche i laici sono
dotati di coscienza morale – di alzarsi e prendere le distanze da un’orribile
legge di morte.
Esiste dunque una ormai
consolidata, squalificante complicità della Corte Costituzionale nel garantire
la sopravvivenza di una legge gravemente ingiusta, cioè di una “non-legge” in
base alla dottrina del diritto naturale. Ma, detto questo, c’è un’altra
fondamentale considerazione da svolgere, e cioè chiedersi che cosa è stato
fatto in questi ultimi decenni in Italia, in termini culturali, politici e
giuridici, dal cosiddetto mondo pro life ufficiale.
Tutti sanno, infatti, che la
Corte Costituzionale è esposta a molteplici forme di pressione politica e
culturale che ne orientano le decisioni. Questo avviene non solo in Italia.
Negli Stati Uniti, ad esempio, la Corte Suprema fu l’artefice della
legalizzazione dell’aborto quando, nel 1973, scrisse la storica sentenza Roe
vs. Wade. Da quel giorno i pro life americani iniziarono una battaglia pubblica
formidabile, che continua ancora oggi, condotta nelle piazze, nelle chiese,
nelle aule parlamentari, nelle campagne per le presidenziali. Nessun esponente
della cultura per la vita statunitense si è mai sognato di dire che «la
sentenza Roe vs Wade è stata applicata male, ma in realtà era a favore della
vita».
Nessun esponente del mondo pro
life d’oltreoceano si è mai sognato di dire che l’importante è «garantire il
diritto della donna di scegliere di non abortire». Nessun presidente della
conferenza episcopale degli Stati Uniti si è mai sognato di dire a milioni di
telespettatori che «noi la legge sull’aborto non vogliamo toccarla». In
quarant’anni di aborto legale, i pro life americani – e non solo quelli
americani – hanno sempre tenuto alto il livello dello scontro, ripetendo a
chiare lettere: «stop abortion», cioè no all’aborto legalizzato.
Lo scenario italiano è sotto
questo profilo totalmente diverso: da molti, da troppi anni, autorevoli
esponenti del mondo cattolico e del mondo pro life hanno smesso di attaccare la
legge 194, sostenendo che essa è una legge «che contiene parti buone»; che «va
applicata tutta»; che «è stata applicata male»; che «non vogliamo cambiare o
abolire la 194». Questo festival del compromesso politico ha generato un clima
surreale, nel quale gli oppositori della legge sono rimasti un’esigua
minoranza, censurata dagli stessi organi di informazione di area cattolica.
La pavidità della Corte
Costituzionale è indubbiamente anche il frutto del progressivo processo di
omologazione del movimento pro life in Italia. Alfredo Mantovano, in una
coraggiosa intervista rilasciata a una giornalista intelligente come Benedetta Frigerio di “Tempiˮ, ha usato
un’immagine efficacissima per descrivere questo lento suicidio della cultura
della vita in Italia: «il mondo pro life, confessionale e non, gioca in
difesa». Mantovano lamenta nella stessa intervista di essere stato inascoltato
dal Movimento per la Vita italiano, e conclude: «spero che chi preferisce
giocare in difesa finalmente ci ripensi».
Dobbiamo dire con molta chiarezza
che, per paradosso, i più preoccupati del ricorso del Giudice di Spoleto erano
proprio gli ambienti cattolici compromissori: infatti, se la Corte
Costituzionale avesse dichiarato l’incostituzionalità dell’articolo 4 della
194, ne sarebbe scaturito un terremoto politico e giuridico. Sarebbe sorto il
problema di come riscrivere la legge sull’aborto, vietando almeno in parte ciò
che oggi è permesso; ma per vietare occorre minacciare sanzioni per chi
contravviene alla norma; e dunque sarebbe stato necessario riprendere in mano
il tema della punibilità dell’aborto; ma una fetta importante del mondo
cattolico e del mondo pro life non vuole nemmeno sentir parlare di “punibilità
dell’aborto”.
Aggiungiamo che la cultura
teologico-penalistica prevalente nel cattolicesimo contemporaneo disprezza la
dottrina classica della retribuzione, e insegna che al delitto e al reato non
si debba rispondere con una pena, appunto, retributiva, soprattutto di fronte a
quei delitti che l’opinione pubblica considera ormai dei diritti. Così, su
aborto, fecondazione artificiale, eutanasia, il Magistero della Chiesa esige
dallo Stato il divieto e la sanzione; ma il mondo cattolico e pro life
“ufficiale”, le conferenze episcopali e i loro giornali, predicano comprensione,
perdono giuridico, assistenza sociale. In una parola: depenalizzazione.
Questa è, purtroppo, la
sconcertante conclusione cui dobbiamo giungere oggi: il mondo pro life
ufficiale vuole che lo status quo non sia modificato, vuole proseguire con le
azioni – meritorie – di aiuto socio-economico-psicologico alla maternità; ma
non vuole promuovere uno scontro pubblico culturale e politico intorno al
principio di autodeterminazione della donna. La «scelta» è diventata il
paradigma fondamentale di non pochi operatori pro life, seppure declinata nella
versione della “scelta per la vita”.
Ecco perché, per paradosso, la
non-decisione della Corte Costituzionale ha fatto tirare un sospiro di sollievo
a quegli ambienti che, teoricamente, dovevano tifare per la dichiarazione di
incostituzionalità.
Una piccola prova del nove: i
giornali laici e abortisti hanno dedicato alla decisione della Corte moltissimo
spazio, mentre “Avvenireˮ ‒ il quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana
– ha trattato il ricorso del Giudice di Spoleto con imbarazzata discrezione.
Unica positiva eccezione, un (tardivo e forse riparatorio) editoriale di
Francesco D’Agostino che domenica 24, molti giorni dopo la sentenza, criticava
apertamente la legge 194 e la non-decisione della Consulta.
All’indomani della sentenza,
invece, sempre sul giornale della Cei si poteva leggere una rassicurante
intervista al Ministro della Salute Renato Balduzzi – in “quota cattolica” al
Governo tecnico Monti – che diceva: «la legge 194 è una legge dello Stato, e quindi
va applicata in tutte le sue parti». Titolo dell’articolo: «Balduzzi: applicare
tutta la 194».
Ecco: questa è diventata la
“linea” da tenere. E chi non la rispetta – come i 15.000 scesi in piazza a Roma
per la Marcia Nazionale per la Vita – semplicemente non esiste. “Avvenireˮ ha
censurato quella Marcia, così come continua a censurare chi, sull’aborto,
vorrebbe provare a giocare all’attacco.
In uno scenario del genere,
nessun giudice della Consulta alzerà la mano per dire “io non ci sto”. L’ultimo
in ordine di tempo a farlo fu il Presidente della Corte, Antonio Baldassarre.
Significativamente, non si trattava di un cattolico, ma di un laico coraggioso
e onesto, in quota alla sinistra. (Mario Palmaro)
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