ABORTO/ Quella vita
"schiacciata" tra diritto, scienza e poco amore - Assuntina Morresi, lunedì
25 giugno 2012, http://www.ilsussidiario.net
Una
coppia di Padova si rivolge a un centro di fecondazione assistita per cercare
di avere un figlio. A gravidanza iniziata, scopre che c’è stato un errore: il
liquido seminale usato non è quello del marito, ma di un estraneo. La signora
decide di abortire e chiede alla clinica i danni, che però il tribunale non
riconosce, dando avvio a una causa che dura da tre anni, e di cui non si vede
la fine. Una storia raccontata dal quotidiano “Libero”, ieri, che l’ha rubricata
come un caso di “malagiustizia” – per il mancato riconoscimento di danni subìti
dalla donna – e “malasanità”, per l’errore avvenuto in laboratorio. Ma le
definizioni sono riduttive.
L’errore
in laboratorio, innanzitutto. L’On. Eugenia Roccella, sottosegretario alla
salute con il governo Berlusconi, è stata continuamente attaccata dai radicali
per come stava applicando alla fecondazione assistita quelle normative europee
su tracciabilità e sicurezza riguardo a cellule e tessuti, che servono
innanzitutto a ridurre le possibilità di tragici errori, come questo.
Addirittura in parlamento c’è chi ha protestato che quelle norme così rigorose
avrebbero causato la chiusura di molti centri.
La verità è che finalmente adesso sono obbligatorie le ispezioni ai centri
di procreazione assistita, almeno una volta ogni due anni, mentre finora, da
quando è entrata in vigore la legge 40,
i centri sono stati sottoposti solo a controlli per l’autorizzazione da
parte della regione. Ma quello che lascia sconcertati è l’”aborto pilotato” a
cui è ricorsa la signora in questione. Fermo restando che non è chiaro il
significato dell’espressione usata – ogni aborto volontario è “pilotato”,
ovviamente – la decisione di abortire lascia l’amaro in bocca.
L’errore
fatto è indubbiamente gravissimo, e va sanzionato nel modo più duro. E
sicuramente il fatto di trovarsi in pancia un figlio che in parte è anche di un
perfetto estraneo, è un trauma (i legali della coppia hanno assimilato il danno
psicologico a quello di uno stupro). Ma perché sopprimerlo, tanto più che in
parte è anche proprio? Tornano alla mente tutte le motivazioni portate da chi
vuole togliere, nella legge 40, il
divieto alla fecondazione eterologa: un figlio è innanzitutto di chi lo cresce,
e non di chi gli dà la metà del patrimonio genetico; quel che conta è quanto
sia stato voluto, e l’amore che gli si dà, le modalità del concepimento sono
del tutto irrilevanti: queste alcune delle argomentazioni di chi vorrebbe
introdurre questa procedura anche nel nostro paese, argomenti che però nessuno
ha messo in campo discutendo il caso di questa coppia, che sicuramente
l’eterologa l’ha subìta – e questo è
grave – ma che ha preferito abortire piuttosto che avere un figlio non
interamente proprio dal punto di vista biologico.
Sarebbe
interessante poi capire perché non è stato riconosciuto il danno subìto: forse
perché la coppia ha deciso di abortire e quel figlio non è più nato?
Certo,
siamo davanti a un caso limite, una situazione – fortunatamente – molto
particolare, ma colpisce soprattutto che di quell’aborto le cronache
riferiscano con una indifferenza sconcertante, quasi fosse il finale scontato
dell’errore di “malasanità”. Con la stessa indifferenza con cui si parla di
eterologa, di genitori “biologici” e “sociali” come fosse la distinzione più
normale del mondo (da parte di chi cerca questa tecnica), di vendita di
gameti, di maternità surrogata (il
cosiddetto utero in affitto), di embrioni crioconservati e di tutti gli
stravolgimenti che le nuove tecniche hanno portato nel concepimento degli
esseri umani, quegli stravolgimenti che, alla fin fine, ci fanno essere sempre
più indifferenti al valore della vita nascente.
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