Il crimine è "malattia" Serve la giustizia? - Più si
approfondiscono gli studi sul cervello, più diventa labile il concetto di
«capace di intendere e volere». E c’è il rischio di un ritorno lombrosiano di
Matteo Sacchi - 28 giugno 2012, http://www.ilgiornale.it
Delitto e castigo: la base del
diritto. Ragione e azione: la base presunta della libertà umana. Volontà e
pulsioni: la base della psicologia, come la conoscono i più. E questi tre
binomi normalmente sembrano potersi sovrapporre abbastanza facilmente.
Ingrandisci immagineTant’è che
per essere punibili di un delitto, in quasi tutti gli ordinamenti giuridici del
mondo, bisogna essere considerati capaci di intendere e di volere, non
sottoposti, durante la sua esecuzione, a cause di forza maggiore. Ecco perché
se una persona in preda a uno stato allucinatorio picchia un vicino di casa
credendolo Bin Landen finisce all’ospedale psichiatrico e non in prigione, o un
cassiere di banca che apre la cassaforte sotto la minaccia di una pistola non è
un ladro. Negli ultimi vent’anni però la possibilità di stabilire solidi confini,
tra lucida volontà di far del male e pulsione incontrollabile, è diventata più
labile. Un esempio noto agli esperti del settore: nel 1999 un tranquillo
insegnante della Virginia, che mai aveva dato segni di comportamenti devianti,
iniziò a molestare la figliastra. Venne immediatamente denunciato, condannato,
allontanato dalla famiglia e dalla scuola. Ogni tentativo di riabilitazione
all’inizio sembrò vano... Poi all’improvviso i medici gli diagnosticarono un
tumore, comprimeva la parte destra del lobo frontale (zona del cervello dove si
trovano le funzioni superiori di cognizione). Appena operato il suo carattere
tornò normale, scomparvero le tendenze pedofile, scattò il senso di colpa...
Tornò a casa. Meno di due anni dopo l’irrefrenabile impulso si presentò di
nuovo. Fu un enorme trauma per la famiglia, però il professore si recò
immediatamente all’ospedale... Il tumore era tornato, lo operarono di nuovo,
«guarì» immediatamente.
Ma se in questo caso, grazie alle
nuove tecnologie, la differenza tra sanità e malattia è immediatamente e
(quasi) univocamente percepibile, in altri le nuove cognizioni provenienti
dalle neuroscienze creano situazioni ambigue. Ci sono scienziati che cercano di
dimostrare che la presenza di una variante genetica (localizzata nel gene MAOA)
aumenta la propensione alla violenza.
Ma allora scatta il dilemma. Il
giudice che deve fare? Considerare questa variante genetica un’attenuante, dare
base scientifica alla frase di Dostoevskij: «Il criminale, nel momento in cui
compie il delitto, è sempre un malato»? Oppure all’estremo opposto della scala
del diritto «scietifizzato», dove si preferisce la sicurezza dei molti alla
tutela dei pochi, si deve decidere che tutte le persone che hanno quella
caratteristica devono essere sorvegliate o private del diritto di portare armi?
Sono domande difficilissime e che per il momento non sfiorano la mente dei
legislatori, spesso in tutt’altro affaccendati, però rischiano di diventare
sempre più pressanti visto il ritmo del progresso scientifico... Ecco il senso
del saggio di Andrea Lavazza (filosofo esperto di neuroscienze) e Luca
Sammicheli (giurista e psicologo) intitolato Il delitto del cervello (Codice
edizioni, pagg. 280, euro 15; sarà presentato oggi, alle 18, alla Feltrinelli
di via Manzoni a Milano). I due hanno voluto indagare il complesso rapporto tra
il diritto della società a difendersi dai criminali e ciò che ci dice la
scienza sulla responsabilità del singolo. E i discrimini sono sottili.
Come spiega Andrea Lavazza: «La
scienza ci dice che dobbiamo cambiare il nostro modo di intendere il libero
arbitrio... Molti dei nostri processi cerebrali sono più automatici di quanto
siamo soliti immaginare. Le nostre capacita decisionali molto meno razionali di
quanto sembrino. Sono fattori in cui allo stato attuale delle nostre conoscenze
il giudice deve decidere ancora caso per caso... non c’è ancora una
giurisprudenza». Però esistono già dei rischi: «Sì, per come la vedo io gli
scienziati troppo deterministi rischiano di riproporre teorie di stampo
lombrosiano... o comunque di trascurare fattori come quelli ambientali nel
delineare la propensione al delinquere».
Però entrambi gli autori, da
scienziati, pur difendendo l’esistenza di ampi margini di autodeterminazione
dell’individuo e rifiutando determinismi genetici, pensano che il diritto debba
prepararsi a una corsa in avanti: «Se sulla genetica del cervello siamo agli
inizi, in altri settori di studio siamo più avanti. Invece ciò che le persone
pensano nella loro “psicologia ingenua” su come si determinino nel cervello i
concetti di Bene e Male è rimasto legato a concetti vecchi... È inevitabile che
il modo di giudicare cambi». Un esempio? Per Maometto a un ladro si tagliava la
mano. Se qualcuno gli avesse spiegato l’esistenza della cleptomania magari ci
avrebbe pensato su. Pare esistano molte cleptomanie che non siamo ancora
abituati a vedere, ma i neuroscienziati iniziano a scorgerle... Forse anche la
giustizia dovrà levarsi la benda e smettere di essere ceca.
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