DIBATTITO/ Gli affetti alla prova di skype: siamo più lontani o più
vicini? - Salvatore Abbruzzese, lunedì 18 giugno 2012, http://www.ilsussidiario.net
Ma il futuro è veramente già
scritto? È il problema fondamentale sul quale si è arenata ogni prospettiva
sociologica, dai primi del novecento in poi. Che il libro di Ulrich Beck,
L'amore a distanza. Il caos globale degli affetti (un testo che addita i
fenomeni più che valutarne l’effettiva estensione) inquadri uno spicchio della
società contemporanea non c’è dubbio, ma che le nuove geografie famigliari
durino e si espandano è proprio ciò che i fenomeni descritti da Beck sembrano
mettere implicitamente in discussione. Il mix culturale, la flessibilità della
distanza, la praticabilità effettiva delle opportunità che sembrano offerte dalla
società globale, fanno qui emergere tutti i loro limiti. Le mille risorse
offerte dalla “compressione dello spazio” che riduce ad una notte di volo le
incalcolabili distanze di trent’anni fa, i dialoghi su skype che nascondono le
distanze reali e, all’opposto ma nell’ambito della stessa illusione, le
convivenze multiculturali nel clima soft del college che maschera le differenze
reali tra modi diversi di leggere la realtà, di organizzare il quotidiano e
farvi ordine, costituiscono altrettante situazioni destinate a mostrare, a
breve, tutti i loro limiti. Questo è il risultato ultimo della narrazione di
Ulrick Beck. Non è quindi sull’estensione delle possibilità di lavorare
(vivere, amare ed amarsi) a migliaia di chilometri di distanza, quanto sulla
sua sostanziale impraticabilità che c’è da riflettere.
Paradossalmente è proprio la
prossimità reale, quella provocata dalla riduzione verticale delle distanze,
assieme all’omologazione dei modelli di consumo ad essere qui messe sotto
accusa in quanto, nascondendo le differenze reali sotto la superficie
dell’indistinto globale, fanno sì che le diversità culturali esplodano
all’improvviso. Un’esplosione tanto più inattesa quanto più la compressione
delle distanze e l’omologazione di consumi e atteggiamenti ne avevano celato la
dimensione reale. Allo stesso modo è l’illusione di skipe ad essere chiamata in
gioco, quella della conversazione telematica che, simulando la prossimità,
maschera il dolore dell’assenza (rinvio alla lettura del testo di Jonah Lynch
Il profumo dei limoni).
Occorre prendere per intero la
misura di una tale trappola alla quale siamo tutti esposti. Attraversare
l’oceano ai primi del novecento, ma anche il contare le stazioni in un viaggio
interminabile tra Palermo e Stoccarda o tra Lecce e Parigi negli anni sessanta,
consentivano di prepararsi alle differenze che si sarebbero incontrate nei
luoghi di arrivo: differenze misurabili nei modi di gestire, di percepire, di
ordinare il quotidiano, di gerarchizzarne i piani attraverso il metro di altre
priorità, di altri valori di riferimento. Le diversità di lingua, di
abbigliamento e di cucina costituivano altrettanti segnali che avvisavano,
segnalavano la presenza di un altrove non immediatamente riducibile al proprio
universo percettivo e valoriale. Le diverse culture erano fruibili solo
attraverso la mediazione di uno spazio fisico che, segnando la distanza, dava
la misura dell’altro ed avvertiva della sua irriducibilità. Allo stesso modo,
questa stessa distanza proclamava il peso della lontananza, dava la misura
reale dell’assenza: essere lontani era una realtà innegabile.
Attualmente proprio la riduzione
dei tempi, l’omologazione dei consumi, la stessa indifferenza degli scenari
urbani cospirano nel suggerire una quieta abolizione del problema. Le culture
sembrano equivalenti ed intersecabili l’una con l’altra, mentre le connessioni
internet alimentano l’illusione di una prossimità reale. Dolori privati e nuove
solitudini si nascondono sotto il tappeto di un volo low cost a portata di mano
o di una videotelefonata dal proprio computer. Esattamente come differenti
architetture dell’esistenza sembrano rendersi invisibili sotto il fumo dei
consumi di massa uguali per tutti, dei gusti di tempo libero che vi si
ricollegano e dei legami affettivi che, nell’ingenua cornice di un ottimismo
evergreen, vi prendono forma.
Una tale illusione circa la
riduzione delle distanze e l’annullamento delle differenze (due lati della
stessa medaglia) non si sarebbe mai affermata se non fosse stata preceduta ed
accompagnata da un primato della razionalità strumentale che contrassegna il
pensiero contemporaneo dominante. L’idea che le culture costituiscano degli
insiemi privi di razionalità, trasmessi solo dall’abitudine e quindi
perfettamente flessibili e trasformabili a seconda delle scelte personali, è in
qualche modo l’errore principale al quale ci si espone. E non stupisce che,
come scrive Concita De Gregorio scrivendo di Beck su Repubblica, sia proprio la
giovane coppia di laureati, inglese lei e indiano lui, a credere in una tale
illusione ed impattare con le differenze culturali: alla London School of
Economics sono in troppi ad avere rapidamente ritenuto che lo studio delle
culture potesse essere rapidamente accantonato per far posto ai nuovi sistemi
di calcolo dei tassi di crescita.
Ovviamente nessuno è destinato a
credere all’infinito nelle illusioni di skype e negli stereotipi della cultura
globale. È abbastanza probabile che conoscenze culturali reali e nuovi livelli
di consapevolezza, alimentino a breve una nuova attenzione a ciò che definisce
e caratterizza ogni universo culturale, prendendone atto della logica interna e
della relativa impermeabilità al cambiamento. È altrettanto probabile che si
alzi ulteriormente la soglia dell’importanza alla persona, per la quale un’immagine
video non sostituisce la presenza e vivere altrove presenta comunque costi
umani reali. In un caso come nell’altro si tratterà di emanciparsi dalle
illusioni della globalizzazione, riprendendo la misura delle differenze, il
peso delle distanze e quello delle assenze. Sarà sempre più chiaro come una
prossimità fisica possa mascherare una lontananza culturale, esattamente come
una prossimità telematica possa illudere sulla distanza reale. In un caso come
nell’altro sarà chiaro come sia proprio la totalità della persona a mancare e
la vicinanza sia, in tutti e due i casi, solo apparente.
Se la globalizzazione alimenta
illusioni, non siamo affatto obbligati a prenderle per delle verità. Il futuro
non è affatto già scritto, lo si può ancora costruire. In un altro modo.
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