Omosessualità, determinismo e libero arbitrio - Ecco i risultati di un
interessante studio pubblicato su Psychological Bulletin, 31 maggio, 2012, http://www.uccronline.it/
Un recente articolo pubblicato
sulla rivista “Psychological Bulletin” si è concentrato sulle differenti
reazioni dell’opinione pubblica quando un comportamento appare guidato dalla
volontà o determinato geneticamente, compresi i comportamenti omosessuali. Gli
autori, gli psicologi Ian Dar-Nimrod dell’University of Rochester Medical
Center e Steven J. Heine dell’University of British Columbia, hanno iniziato la
loro discussione, affermando che gli esseri umani tendono a “essenzializzare”
alcune entità che incontrano, cioè percepiscono come “naturale” ciò che li
rende quello che sono e che in loro «genera le comuni caratteristiche apparenti
dei membri di una categoria particolare», scrivono.
Per sostenere la “naturalità”
della loro posizione, queste persone si affidano alla genetica: «i “geni”»,
scrivono i due psicologi, «spesso fungono da segnaposto per questa essenza
immaginata, e questo ha implicazioni importanti», ovvero gli elementi che definiscono
l’essenzialismo psicologico (cioè la visualizzazione di un carattere come
immutabile, fondamentale, omogeneo, discreto e naturale) sono percepiti come
fattori genetici. Questo porta ovviamente a «svalutare il ruolo dei fattori
ambientali ed esperienziali», fa sentire predestinati, visualizzando i “geni”
come la causa fondamentale della propria condizione (“i miei geni mi portano a
fare…”). Inoltre, ci si convince che tutti i membri di un certo gruppo debbano
condividere una certa essenza genetica, e «tale condizione non dovrebbe essere
osservata in coloro che non condividono lo stesso fondamento genetico di base»
(pag. 801). Tutto questo però porta ad una grave conseguenza: «può indurre alla
cosiddetta “fallacia naturalistica”, che si traduce nel fatto che questi
comportamenti vengono percepiti come più moralmente accettabili. Qui le
proprietà etiche sono erroneamente derivate da presunte proprietà naturali»,
avvertono. Gli autori osservano anche che la “fallacia naturalistica” ha
beneficiato i gay e lesbiche, ma ha sfavorito i criminali e gli obesi, in
quanto questo errore emerge più fortemente quando i risultati sono associati a
comportamenti che sono visti come volontari, ovvero l’omosessualità percepita
come “naturale” porta ad una maggiore accettazione, mentre è vero il contrario
per chi ha un comportamento criminale o è obeso. Sintetizzano, scrivono gli
autori: «l’omosessualità può essere vista in modo più positivo se è percepita
come il risultato di una naturale, predisposizione genetica, piuttosto che come
una scelta di vita fatta consapevolmente» (pag. 802). Il punto è che
l’omosessualità non ha una chiara origine genetica.
Gli autori esaminano proprio il
tema dell’orientamento sessuale come un esempio di come la “fallacia
naturalistica” possa guidare un dibattito politico. In particolare hanno
analizzato la reazione dell’opinione pubblica alla scoperta nel 1993 (Hamer et
al.) di un marcatore genetico (Xq28), che in parte avrebbe dovuto rappresentare
l’omosessualità maschile (il famoso “gene gay”, anche se poi tutti i tentativi
di replicare i risultati hanno fallito: Rice, Anderson, Risch, & Ebers,
1999). La società ha cominciato a concepire l’omosessualità come in un rapporto
immutabile di causalità con i geni, eliminando dal dibattito la storica
posizione psicoanalitica che -ancora oggi- ritiene l’omosessualità una
probabile conseguenza di madri prepotenti e padri freddi e distaccati. «Ancora
una volta», scrivono i due autori, «la prova che gli argomenti genetici portano
a reazioni qualitativamente diverse rispetto a quelle ambientali» (p.
806). I comportamenti che hanno
implicazioni morali, rilevano ancora, «perdono la loro forza morale, se la
gente guarda quei comportamenti come al di là della volontà individuale» (p.
806). Interessante anche il fatto che gli autori ritengono che questo
pregiudizio dell’essenzialismo genetico sia stato alla base anche della
«crescita delle ideologie eugenetiche in tutta la storia. Quando i geni sono
percepiti come li locus della causalità, ne consegue che gli sforzi per
migliorare l’umanità si concentreranno sul miglioramento genetico», in modo
diffuso da Darwin al XX secolo (pag. 811).
Gli autori sostengono che i mass
media sono complici nell’aver fatto svolgere ai geni un ruolo più centrale
rispetto ai dati suggeriti dalla ricerca scientifica, fornendo costantemente un
quadro troppo semplificato della ricerca genetica, in chiave eccessivamente
deterministica. L’altro errore dei media, secondo gli psicologi, è equiparare
il comportamento omosessuale a una caratteristica geneticamente determinata,
come il colore della pelle (spesso, ad esempio, si equipara in modo tendenzioso
l’opposizione alle nozze gay con l’opposizione alle nozze miste). Anche i
ricercatori hanno gravi responsabilità in quanto, avendo bisogno
dell’attenzione dei media e di finanziamenti a fondo perduto, possono
contribuire a promuovere i pregiudizi essenzialisti delle persone (ad esempio
parlando di “gene egoista”, “gene del tradimento”, “gene gay”). Il risultato di
queste rappresentazioni, secondo gli autori, è che «le persone che ottengono la
loro conoscenza della genetica attraverso i media hanno più probabilità di
concepire le influenze genetiche in modo troppo deterministico, immutabile, e,
infine, in modo erroneo» (p. 812).
All’articolo è seguita una
replica di Eric Turkheimer, psicologo della University of Virginia, il quale ha
introdotto l’argomento del libero arbitrio (inteso da lui non in modo
metafisico ma come «la nostra capacità di rispondere alle situazioni complesse
in modi complessi e imprevedibili e il processo di costruzione del sé»). Come
dimostrano gli studi sui gemelli, ha scritto, è l’ambiente di crescita non
condiviso (affidati a due famiglie diverse) che modella le differenze di
comportamento (anche sessuale): «siamo liberi di diventare ciò che vogliamo»,
scrive, «anche se faremo uno forzo maggiore per alcuni tratti rispetto che ad
altri». Secondo le statistiche comparative sulle varianze non condivise (NEP),
«cambiare l’orientamento sessuale richiede in generale un impegno minore che
modificare tratti della personalità o curare la depressione, ma un maggiore
sforzo rispetto a ridurre il peso corporeo o cambiare un atteggiamento
criminale». Nella loro controreplica, Dar-Nimrod e Heine, si mostrano d’accordo
sul fatto che «i geni sono importanti per tutti i comportamenti umani
complessi, ma non ne determinano nessuno [...] poiché non sono noti
comportamenti umani complessi in cui i geni rendono incapaci di resistere
all’esecuzione di un comportamento, l’argomento genetico non dovrebbe essere
usato come base per le valutazioni morali. I geni forniscono una fonte di
influenza ma il loro ruolo nella produzione di eventuali comportamenti
complessi è lontano dal determinismo. Inoltre, la quantità di influenza che i
geni hanno sui comportamenti è notevolmente più piccola di quanto si possa
pensare».
Questo studio (interessante anche
il commento allo studio fatto da Christopher H. Rosik, psicologo, docente alla
Clinical faculty della Fresno Pacific University e direttore di ricerca presso
il “Link Care Center”), in conclusione, dimostra che non vi sono forti nessi
tra l’omosessualità e l’ereditabilità genetica e dire il contrario è errato ma
aiuta all’accettabilità morale del comportamento omosessuale (ecco perché c’è e
c’è stata questa pressione sul “gene gay” da parte della lobby omosessuale) e
delle sue conseguenze (matrimonio gay, adozione ecc.). Gli autori dimostrano
infine che il determinismo è una posizione errata, non c’è nessuna influenza
genetica in grado di determinare completamente il comportamento umano.
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