Quei rimedi per la peste logici, coerenti, sbagliati - Un libro sulla
battaglia contro il morbo nell'Italia del '600: errori di metodo che insegnano
qualcosa ancora oggi - CARLO M. CIPOLLA - 15/06/2012 - http://www3.lastampa.it/
Quando nel 1557-1558 una grave
epidemia di influenza colpì la Sicilia, il dottor Giovanni Filippo Ingrassia,
nel rivolgersi all’amministrazione di Palermo, ammoniva le autorità a non
chiedere ai medici informazioni specifiche sulle terapie, «perché quelli havemo
da provedere noi, et si potrà disputare altra volta; ma quanto a quello, che le
Signorie V. ricercano da noi, cioè che possano essi provvedere all’universale».
In termini più chiari, la terapia
doveva essere affare soltanto del medico, che era direttamente responsabile
verso il paziente. Gli uffici della Sanità dovevano «provvedere
all’universale», vale a dire alla collettività, in termini di prevenzione.
Le sfere di competenza, tuttavia,
non erano e non potevano essere separate in modo così netto. I dottori si
occupavano non soltanto della terapia ma anche della prevenzione, ed erano
tenuti a fornire consulenza tecnica agli uffici della Sanità su tutti e due gli
aspetti. Inoltre, poiché molto spesso le terapie correnti dimostravano di non
aver alcuna efficacia contro la peste, gli stessi dottori erano propensi a dare
maggiore importanza alla prevenzione che alla terapia. Durante l’epidemia del
1576 il medico genovese Giovan Agostino Contardo scrisse un breve trattato su
Il modo di preservarsi e curarsi dalla peste , nel quale rimarcava che in
medicina «la parte preservativa è più nobile assai, e più necessaria che la
curativa».
Sono concetti, questi, che danno
una bella impressione di modernità. Purtroppo la loro applicazione risultava
mal indirizzata e approssimativa, perché sull’eziologia del morbo infettivo
prevalevano idee inadeguate. La convinzione predominante riguardo alla peste
era che essa fosse originata da atomi velenosi. Che fossero generati da materia
in putrefazione o emanati da individui infetti (persone, animali, oggetti), gli
atomi velenosi infettavano l’aria salubre e la rendevano «miasmatica», vale a
dire velenosa. Era proprio l’aria «corrotta» a costituire, secondo i dottori
del Rinascimento, la condizione di base indispensabile perché scoppi
un’epidemia di peste.
Oltre che mortalmente velenosi,
gli atomi cattivi erano anche estremamente «viscosi»: si attaccavano agli
oggetti, agli animali e agli esseri umani allo stesso modo che i profumi e i
cattivi odori impregnano i tessuti e gli altri materiali. Se inalati o assorbiti
da una persona o da un animale attraverso i pori della pelle, gli atomi
pestiferi avvelenavano il corpo, causavano infermità e, in virtù della loro
estrema malignità, nella massima parte dei casi portavano alla morte. Per
contatto diretto o per inalazione, gli atomi potevano persino passare da
oggetto a oggetto, da persona a persona, da un oggetto o un animale a una
persona e viceversa. Ne conseguiva logicamente che il solo modo per evitare la
diffusione della malattia era interrompere ogni contatto con persone, animali e
oggetti provenienti da aree colpite dalla peste.
Nonostante la vaghezza del
linguaggio, la teoria di base era semplice, logica e dotata di coerenza
interna. Ma semplicità, logicità e coerenza non erano allora né sono mai
garanzia di validità. In realtà il sistema teorico in questione non era molto
più che ignoranza dogmatica. Dovremmo però badare a non ridere dei dottori del
Rinascimento: ancora oggi, trecento anni dopo la rivoluzione scientifica,
un’allarmante quantità di sedicenti scienziati sociali sembra credere che, se i
propri modelli sono logici e coerenti, devono essere anche esatti. Com’è ovvio,
le cose non stanno così. Il vero test di esattezza è l’osservazione, e questo è
un fatto incontestabile, con alcune importanti condizioni.
L’uomo non è in grado di
comprendere i fatti nuovi senza fare riferimento a un certo numero di concetti
esistenti, e tali concetti inevitabilmente modificano il tipo di fatti che egli
vede e il suo modo di vederli. Quando un ricercatore osserva la realtà, non
opera nel vuoto, perché appartiene al proprio tempo e alla propria società.
Persino le parole e i concetti che adopera hanno connotazioni specifiche che
sono determinate dai suoi pensieri e dalla sua argomentazione, e non è mai
immune da un sistema concettuale di riferimento presupposto in modo più o meno
consapevole. Nemmeno il ricercatore più incline all’induzione parte mai da una
tabula rasa .
In realtà, se il paradigma
dominante è del tutto estraneo alla realtà sotto esame, è possibile che il
ricercatore non si accorga nemmeno di quel che gli passa sotto gli occhi (come
attesta la storia del microscopio nei primi secoli della sua esistenza); se poi
nota il fenomeno, può essere indotto a scartarlo considerandolo irrilevante. Il
fatto è che ciò che uno osserva è soltanto una particella infinitesimale della
realtà, e quella particella acquista un significato soltanto se si adatta bene
al mosaico cui appartiene. Se il mosaico giusto non c’è, se non c’è nulla a cui
quella tessera minuta possa collegarsi, essa sembra insignificante e non
veicola alcun messaggio. Solo il genio d’eccezione può concepire l’intero
universo da uno sguardo a una minuscola particella. Se tutto ciò suona
ridicolmente astratto, mi sia consentito di citare un episodio significativo
che riguarda l’oggetto del libro.
All’inizio del secolo
decimosettimo in Francia i medici che visitavano i malati di peste cominciarono
a indossare una palandrana di toile-cirée , vale a dire di una sottile tela di
lino rivestita di una pasta fatta di cera mescolata a sostanze aromatiche.
Questo sinistro vestito divenne molto popolare, soprattutto in Italia, e
durante l’epidemia del 1630-1631 venne spesso impiegato non solo in città come
Bologna, Lucca e Firenze, ma anche in piccoli paesi della Toscana come
Montecarlo, Pescia e Poppi. Allorché una nuova epidemia di peste devastò parte
dell’Italia nel 1656-1657, il costume tornò a essere di uso comune a Roma e a
Genova. L’idea che stava dietro alla confezione e all’utilizzo dell’abito
cerato era che gli atomi velenosi dei miasmi non si «attaccavano» alla sua
superficie liscia e scivolosa. E dal momento che il suo impiego sembrava
funzionare e rispondere allo scopo, i medici del tempo trovarono in ciò una
conferma alle loro teorie sul contagio e sul ruolo dei miasmi.
Padre Antero Maria di San
Bonaventura (al secolo Filippo Micone) era un frate sveglio ed energico, che
durante l’epidemia del 1657 venne incaricato della gestione del principale
lazzaretto di Genova. L’esperienza gli insegnava che coloro che andavano a
prestare servizio nei lazzaretti senza essersi mai infettati di peste in
precedenza raramente mancavano di contrarre il morbo. Non aveva alcuna fiducia
nelle precauzioni correnti, e circa l’abito di tela cerata, ecco cosa aveva da
dire: «la tonica incerata in un Lazaretto, non hà altro buon effetto, solo che
le pulici non si facilmente vi s’annidano».
L’osservazione del frate
sull’abito cerato era corretta e coglieva il punto: quel costume non proteggeva
la gente dai miasmi, la proteggeva dalle pulci. Con il suo commento il frate
era giunto incredibilmente vicino a una scoperta straordinaria. Ma non la fece.
Nel sistema di pensiero dominante le pulci erano animali fastidiosi ma innocui.
Ne seguiva che, se l’abito serviva soltanto a proteggere dalle pulci, contro la
peste era inutile. Come avrebbe potuto mai pensare, il frate, di sfidare
l’intero sistema sulla base di una casuale osservazione riguardo alle pulci? Il
sistema di conoscenze era universale e autorevole. L’osservazione sulle pulci era,
al contrario, occasionale, quasi una battuta, e sembrò irrilevante anche a lui
che l’aveva fatta. Accadde così che il sistema prevalse e l’osservazione andò
perduta.
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