martedì 5 giugno 2012


Ecco il mio gemello androide, intelligenza artificiale / 2, Anna Li Vigni, 3 giugno 2012, Il Sole 24 Ore, http://www.swas.polito.it

Hiroshi Ishiguro, ingegnere roboticista dell'università di Osaka, ha un biglietto da visita unico. Da una parte c'è la foto del suo viso. Dall'altra parte, la foto del viso del suo gemello androide, un robot della serie Geminoid. È quasi impossibile distinguerli. L'impegno di Ishiguro nella costruzione di artefatti umanoidi il più possibile somiglianti agli esseri umani si concentra sulla programmazione del viso: i robot sono capaci di eseguire micromovimenti involontari - sbattere le ciglia, muovere le labbra, simulare la respirazione - come quelli delle persone vere. Infatti, è soprattutto attraverso il volto che avviene la comunicazione non verbale tra le persone: il volto è una finestra perennemente aperta verso l'altro e disponibile a stabilire connessioni intersoggettive. Non è un caso se l'evoluzione ha messo a punto, nel nostro cervello, una parte adibita esclusivamente al riconoscimento dei volti. Ma gli interessi del ricercatore giapponese sono essenzialmente filosofici: indagare la "percezione della presenza" (sonzai-kan) da parte degli umani che interagiscono con androidi estremamente verosimiglianti; capire se è possibile, per l'umanità del futuro, convivere con "esseri" artificiali capaci di aiutare concretamente in situazioni sociali critiche, quali la gestione delle persone affette da disagi di varia natura. Un futuro che è già presente nella piéce teatrale Sayonara, che Ishiguro sta allestendo sui palcoscenici giapponesi: è la storia di una malata terminale assistita e consolata da una donna androide - nello spettacolo, l'attrice-robot Geminoid F. A Ishiguro chiediamo se un giorno sarà mai possibile conversare con un androide come con un essere umano, considerate le dovute differenze: un robot è programmato per rispondere solo in un certo modo, l'essere umano è libero di rispondere come gli pare. Ishiguro è ottimista: «Un giorno gli androidi saranno programmati per conversare in modo così complesso, da avere numerose risposte possibili per ogni input verbale proveniente dal l'esterno, per cui l'impressione di artificiosità da parte degli umani sarà sempre minore». Nel caso dei bambini autistici, poi, coi quali l'uso terapeutico di automi ha avuto un buon successo, «il problema della totale credibilità della conversazione è secondario, mentre primario è l'approccio comunicativo non verbale, stabilito dalla verosimiglianza delle espressioni del volto dell'androide». Nel saggio Il volto come interfaccia, Davide Fornari approfondisce in maniera critica e brillante uno dei temi più sconvolgenti della cultura contemporanea, che tocca sia la robotica che il design: il confronto tra esseri umani e androidi; l'insieme di sentimenti positivi e negativi che scaturisce da tale interazione. La tecnologia robotica giapponese si sta impegnando per rendere sempre più verosimili i robot con cui, realisticamente, avremo a che fare nel futuro. È un fatto positivo? Non lo è per Masahiro Mori - che interviene nel volume di Fornari - secondo cui la ricerca della totale somiglianza del robot al modello umano naturale è un approccio "ingenuo". Se è vero che, di norma, il gradimento dei robot da parte delle persone è tanto più alto quanto più il robot è antropomorfizzato - come nel caso di quei piccoli e simpatici elettrodomestici dal volto astrattamente umanizzato - tuttavia, ciò vale solo fino a un certo punto. Infatti, quando la somiglianza dell'artefatto con l'umano diviene quasi totale, come nei Geminoid di Ishiguro, accade un fenomeno paradossale: le differenze minime ma ineliminabili - il colore uniforme della "pelle" in silicone, la mancanza di odori e calore - denunciano l'artificiosità della creatura androide e producono un effetto "perturbante" che disturba e allontana l'utente umano. La percezione, in sé positiva, della presenza di un altro "essere", si muterebbe in questo caso in una sensazione spiacevole, quel "perturbante" (das Unheimliche) che per Freud deriva dal contatto diretto con ciò che non ci è familiare, come accade di fronte a un corpo senza vita. Affinché un robot susciti una risposta empatica nell'utente, è bastevole - secondo Fornari - che il suo aspetto sia solo astrattamente antropomorfo. Ha senso, dunque, che l'ingegneria dedichi le proprie energie a risolvere il problema di come rendere i robot perfettamente identici agli umani? Il dibattito scientifico, in Giappone, è a un bivio epocale. Chissà, forse un giorno gli androidi davvero si mescoleranno indistinti agli umani come in Blade Runner.
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Davide Fornari, «Il volto come interfaccia», prefazione di Giovanni Anceschi, con un saggio di Masahiro Mori, et al./ Edizioni, pagg. 250, € 33,00

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