Ecco il mio gemello androide, intelligenza artificiale / 2, Anna Li
Vigni, 3 giugno 2012, Il Sole 24 Ore, http://www.swas.polito.it
Hiroshi Ishiguro, ingegnere
roboticista dell'università di Osaka, ha un biglietto da visita unico. Da una
parte c'è la foto del suo viso. Dall'altra parte, la foto del viso del suo
gemello androide, un robot della serie Geminoid. È quasi impossibile
distinguerli. L'impegno di Ishiguro nella costruzione di artefatti umanoidi il
più possibile somiglianti agli esseri umani si concentra sulla programmazione
del viso: i robot sono capaci di eseguire micromovimenti involontari - sbattere
le ciglia, muovere le labbra, simulare la respirazione - come quelli delle
persone vere. Infatti, è soprattutto attraverso il volto che avviene la
comunicazione non verbale tra le persone: il volto è una finestra perennemente
aperta verso l'altro e disponibile a stabilire connessioni intersoggettive. Non
è un caso se l'evoluzione ha messo a punto, nel nostro cervello, una parte
adibita esclusivamente al riconoscimento dei volti. Ma gli interessi del
ricercatore giapponese sono essenzialmente filosofici: indagare la
"percezione della presenza" (sonzai-kan) da parte degli umani che
interagiscono con androidi estremamente verosimiglianti; capire se è possibile,
per l'umanità del futuro, convivere con "esseri" artificiali capaci
di aiutare concretamente in situazioni sociali critiche, quali la gestione
delle persone affette da disagi di varia natura. Un futuro che è già presente
nella piéce teatrale Sayonara, che Ishiguro sta allestendo sui palcoscenici
giapponesi: è la storia di una malata terminale assistita e consolata da una
donna androide - nello spettacolo, l'attrice-robot Geminoid F. A Ishiguro
chiediamo se un giorno sarà mai possibile conversare con un androide come con un
essere umano, considerate le dovute differenze: un robot è programmato per
rispondere solo in un certo modo, l'essere umano è libero di rispondere come
gli pare. Ishiguro è ottimista: «Un giorno gli androidi saranno programmati per
conversare in modo così complesso, da avere numerose risposte possibili per
ogni input verbale proveniente dal l'esterno, per cui l'impressione di
artificiosità da parte degli umani sarà sempre minore». Nel caso dei bambini
autistici, poi, coi quali l'uso terapeutico di automi ha avuto un buon
successo, «il problema della totale credibilità della conversazione è
secondario, mentre primario è l'approccio comunicativo non verbale, stabilito
dalla verosimiglianza delle espressioni del volto dell'androide». Nel saggio Il
volto come interfaccia, Davide Fornari approfondisce in maniera critica e
brillante uno dei temi più sconvolgenti della cultura contemporanea, che tocca
sia la robotica che il design: il confronto tra esseri umani e androidi;
l'insieme di sentimenti positivi e negativi che scaturisce da tale interazione.
La tecnologia robotica giapponese si sta impegnando per rendere sempre più
verosimili i robot con cui, realisticamente, avremo a che fare nel futuro. È un
fatto positivo? Non lo è per Masahiro Mori - che interviene nel volume di
Fornari - secondo cui la ricerca della totale somiglianza del robot al modello
umano naturale è un approccio "ingenuo". Se è vero che, di norma, il
gradimento dei robot da parte delle persone è tanto più alto quanto più il
robot è antropomorfizzato - come nel caso di quei piccoli e simpatici
elettrodomestici dal volto astrattamente umanizzato - tuttavia, ciò vale solo
fino a un certo punto. Infatti, quando la somiglianza dell'artefatto con
l'umano diviene quasi totale, come nei Geminoid di Ishiguro, accade un fenomeno
paradossale: le differenze minime ma ineliminabili - il colore uniforme della
"pelle" in silicone, la mancanza di odori e calore - denunciano
l'artificiosità della creatura androide e producono un effetto "perturbante"
che disturba e allontana l'utente umano. La percezione, in sé positiva, della
presenza di un altro "essere", si muterebbe in questo caso in una
sensazione spiacevole, quel "perturbante" (das Unheimliche) che per
Freud deriva dal contatto diretto con ciò che non ci è familiare, come accade
di fronte a un corpo senza vita. Affinché un robot susciti una risposta
empatica nell'utente, è bastevole - secondo Fornari - che il suo aspetto sia
solo astrattamente antropomorfo. Ha senso, dunque, che l'ingegneria dedichi le
proprie energie a risolvere il problema di come rendere i robot perfettamente
identici agli umani? Il dibattito scientifico, in Giappone, è a un bivio
epocale. Chissà, forse un giorno gli androidi davvero si mescoleranno
indistinti agli umani come in Blade Runner.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Davide Fornari, «Il volto come
interfaccia», prefazione di Giovanni Anceschi, con un saggio di Masahiro Mori,
et al./ Edizioni, pagg. 250, € 33,00
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