L'uomo che credeva di essere morto E altre stranezze della coscienza - Le
ricerche dello scienziato considerato il vero erede di Oliver Sacks condotte
con metodi volutamente anacronistici, Alice Vigna, 4 giugno 2012, http://www.corriere.it
Tutti conoscono Oliver Sacks e i
suoi racconti su pazienti «speciali», con insolite malattie neurologiche, attraverso
cui è stato possibile capire qualcosa di più del nostro cervello. Pochissimi
invece sanno chi è Vilayanur Subramanian Ramachandran, forse perché il nome è
quasi impronunciabile. Eppure questo neuroscienziato di origine indiana,
direttore del Center for Brain and Cognition dell’Università di San Diego in
California, è considerato uno dei pionieri delle neuroscienze del ventunesimo
secolo o, per dirla con l’etologo evoluzionista Richard Dawkins, «il Marco Polo
dei giorni nostri, che viaggia sulla Via della Seta della scienza verso uno
strano ed esotico Catai della mente».
Ramachandran è sempre stato
curioso e brillante: come molti bambini raccoglieva fossili e conchiglie, poi
però lui li mandava al Museo di storia naturale di New York e più di una sua
«scoperta» è stata accolta nelle sale del museo (tuttora amante della
paleontologia, nel 2009 un dinosauro è stato chiamato Minotaurasaurus
ramachandrani in suo onore). A quattordici anni ricevette il suo primo
microscopio: affascinato dalla chimica prima e dalla biologia poi, aveva già
allora la mente piena di mille domande ed era fermamente intenzionato ad andare
a fondo di ciò che lo interessava oltre che consapevole di non dover mai dare
l’ovvio per scontato. Tanto che a vent’anni, mentre frequentava il secondo anno
di medicina, una sua teoria sul modo in cui i segnali provenienti dagli occhi
vengono interpretati dal cervello è stata pubblicata su Nature, una delle più
prestigiose riviste scientifiche. Insomma uno scienziato decisamente acuto, che
ammette di non ricordare mai dove parcheggia la macchina ma ha sfornato ipotesi
e teorie fra le più interessanti degli ultimi vent’anni scrivendole in libri
che si leggono con piacere perché, come molte menti geniali, Ramachandran non
sale in cattedra ed è sempre ironico e divertente.
Come nel suo ultimo libro «L'uomo
che credeva di essere morto», un viaggio alla ricerca di ciò che ci rende umani
che, alla fine, lascia la sensazione di avere quasi sfiorato la risposta a
quella che il neurologo ritiene la domanda più difficile di tutte: in che modo
il cervello umano dà origine alla coscienza, che cosa è davvero l’«io»? Un
interrogativo «teologico», anche se Ramachandran si tiene ben lontano da
concetti come anima o Dio perché, scrive, «come esseri umani dobbiamo accettare
il fatto che per quanto possiamo approfondire la nostra conoscenza del cervello
e dell’universo che da esso emana, il problema delle origini ultime ci
accompagnerà per sempre». Possiamo però chiederci come percepiamo il mondo,
come si è evoluto il linguaggio («la più gloriosa di tutte le nostre facoltà
intellettive») e che ruolo ha avuto nella trasmissione della cultura, come si
forma e si manifesta il pensiero, che cos’è l'arte e come e perché ne godiamo,
dove e come nasce la nostra capacità di introspezione e autocoscienza:
Ramachandran affronta questi e molti altri temi complessi, poggiando sulle
solide fondamenta di prove scientifiche ma anche lasciandosi guidare
dall’intuizione verso ipotesi plausibili quando dati empirici non ce ne sono
ancora. «Non è cosa di cui vergognarsi (…) In questi casi dobbiamo dar voce
perfino alle più strampalate e azzardate supposizioni — scrive — e poi
spremerci le meningi per trovare il modo di verificarle». Il «modo» per
Ramachandran è fare esperimenti semplici, ai limiti del banale: tecnofobo
convinto (fatica tuttora a usare lo smartphone), i suoi test potrebbe farli
chiunque.
Criticato da alcuni per questo
approccio anacronistico in un’era di grandi tecnologie, Ramachandran sorride
ancora pensando di aver usato per i suoi primi esperimenti sugli arti fantasma
bastoncini di ovatta, bicchieri di acqua calda e fredda e comuni specchi al
posto di scanner cerebrali. «Ippocrate o qualsiasi altro medico vissuto tra
l’antichità e oggi avrebbe potuto eseguire gli stessi esperimenti di base,
eppure nessuno l’ha fatto — osserva con una punta di orgoglio intellettuale —.
Non sono un luddista, voglio solo dire che la scienza dovrebbe essere guidata
dagli interrogativi, non dalla metodologia». Le domande di Ramachandran nascono
spesso dall’osservazione di casi clinici inconsueti: «Persone in cui difetti
genetici o lesioni cerebrali localizzate hanno prodotto effetti bizzarri,
mentali o comportamentali: da loro si può imparare come funziona un cervello
sano e normale». Così il neuroscienziato ci racconta le storie di Francesca,
Susan e Mirabelle che vedono i suoni e odono i colori, letteralmente, a causa
della sinestesia che «mescola» sensazioni, percezioni ed emozioni; il caso di
Steven, un bimbo autistico che ha suggerito a Ramachandran l’ipotesi che la
malattia possa essere un deficit del sistema dei neuroni specchio, quelli che
si «accendono» quando vediamo espressioni o gesti degli altri; o ancora
pazienti con disturbi che diventano «finestre» su precisi aspetti del senso di sé
proprio dell’uomo, come Nora che dopo un ictus negava l’evidente infermità o il
giovane Ali, epilettico realmente convinto di essere morto.
Ramachandran spiega che cosa
sappiamo delle basi neurologiche di queste patologie ma soprattutto le sfrutta
per capire qualcosa di più della mente umana, di come ci costruiamo una visione
del mondo esterno e di noi stessi, di come e dove nasce la nostra coscienza.
Perché «La nostra mente, le ambizioni, l’amore, ciò che riteniamo essere il
nostro io, tutto è frutto dell'attività di piccoli ammassi gelatinosi nella
nostra testa».
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