martedì 5 giugno 2012


L'uomo che credeva di essere morto E altre stranezze della coscienza - Le ricerche dello scienziato considerato il vero erede di Oliver Sacks condotte con metodi volutamente anacronistici, Alice Vigna, 4 giugno 2012, http://www.corriere.it

Tutti conoscono Oliver Sacks e i suoi racconti su pazienti «speciali», con insolite malattie neurologiche, attraverso cui è stato possibile capire qualcosa di più del nostro cervello. Pochissimi invece sanno chi è Vilayanur Subramanian Ramachandran, forse perché il nome è quasi impronunciabile. Eppure questo neuroscienziato di origine indiana, direttore del Center for Brain and Cognition dell’Università di San Diego in California, è considerato uno dei pionieri delle neuroscienze del ventunesimo secolo o, per dirla con l’etologo evoluzionista Richard Dawkins, «il Marco Polo dei giorni nostri, che viaggia sulla Via della Seta della scienza verso uno strano ed esotico Catai della mente».

Ramachandran è sempre stato curioso e brillante: come molti bambini raccoglieva fossili e conchiglie, poi però lui li mandava al Museo di storia naturale di New York e più di una sua «scoperta» è stata accolta nelle sale del museo (tuttora amante della paleontologia, nel 2009 un dinosauro è stato chiamato Minotaurasaurus ramachandrani in suo onore). A quattordici anni ricevette il suo primo microscopio: affascinato dalla chimica prima e dalla biologia poi, aveva già allora la mente piena di mille domande ed era fermamente intenzionato ad andare a fondo di ciò che lo interessava oltre che consapevole di non dover mai dare l’ovvio per scontato. Tanto che a vent’anni, mentre frequentava il secondo anno di medicina, una sua teoria sul modo in cui i segnali provenienti dagli occhi vengono interpretati dal cervello è stata pubblicata su Nature, una delle più prestigiose riviste scientifiche. Insomma uno scienziato decisamente acuto, che ammette di non ricordare mai dove parcheggia la macchina ma ha sfornato ipotesi e teorie fra le più interessanti degli ultimi vent’anni scrivendole in libri che si leggono con piacere perché, come molte menti geniali, Ramachandran non sale in cattedra ed è sempre ironico e divertente.

Come nel suo ultimo libro «L'uomo che credeva di essere morto», un viaggio alla ricerca di ciò che ci rende umani che, alla fine, lascia la sensazione di avere quasi sfiorato la risposta a quella che il neurologo ritiene la domanda più difficile di tutte: in che modo il cervello umano dà origine alla coscienza, che cosa è davvero l’«io»? Un interrogativo «teologico», anche se Ramachandran si tiene ben lontano da concetti come anima o Dio perché, scrive, «come esseri umani dobbiamo accettare il fatto che per quanto possiamo approfondire la nostra conoscenza del cervello e dell’universo che da esso emana, il problema delle origini ultime ci accompagnerà per sempre». Possiamo però chiederci come percepiamo il mondo, come si è evoluto il linguaggio («la più gloriosa di tutte le nostre facoltà intellettive») e che ruolo ha avuto nella trasmissione della cultura, come si forma e si manifesta il pensiero, che cos’è l'arte e come e perché ne godiamo, dove e come nasce la nostra capacità di introspezione e autocoscienza: Ramachandran affronta questi e molti altri temi complessi, poggiando sulle solide fondamenta di prove scientifiche ma anche lasciandosi guidare dall’intuizione verso ipotesi plausibili quando dati empirici non ce ne sono ancora. «Non è cosa di cui vergognarsi (…) In questi casi dobbiamo dar voce perfino alle più strampalate e azzardate supposizioni — scrive — e poi spremerci le meningi per trovare il modo di verificarle». Il «modo» per Ramachandran è fare esperimenti semplici, ai limiti del banale: tecnofobo convinto (fatica tuttora a usare lo smartphone), i suoi test potrebbe farli chiunque.

Criticato da alcuni per questo approccio anacronistico in un’era di grandi tecnologie, Ramachandran sorride ancora pensando di aver usato per i suoi primi esperimenti sugli arti fantasma bastoncini di ovatta, bicchieri di acqua calda e fredda e comuni specchi al posto di scanner cerebrali. «Ippocrate o qualsiasi altro medico vissuto tra l’antichità e oggi avrebbe potuto eseguire gli stessi esperimenti di base, eppure nessuno l’ha fatto — osserva con una punta di orgoglio intellettuale —. Non sono un luddista, voglio solo dire che la scienza dovrebbe essere guidata dagli interrogativi, non dalla metodologia». Le domande di Ramachandran nascono spesso dall’osservazione di casi clinici inconsueti: «Persone in cui difetti genetici o lesioni cerebrali localizzate hanno prodotto effetti bizzarri, mentali o comportamentali: da loro si può imparare come funziona un cervello sano e normale». Così il neuroscienziato ci racconta le storie di Francesca, Susan e Mirabelle che vedono i suoni e odono i colori, letteralmente, a causa della sinestesia che «mescola» sensazioni, percezioni ed emozioni; il caso di Steven, un bimbo autistico che ha suggerito a Ramachandran l’ipotesi che la malattia possa essere un deficit del sistema dei neuroni specchio, quelli che si «accendono» quando vediamo espressioni o gesti degli altri; o ancora pazienti con disturbi che diventano «finestre» su precisi aspetti del senso di sé proprio dell’uomo, come Nora che dopo un ictus negava l’evidente infermità o il giovane Ali, epilettico realmente convinto di essere morto.

Ramachandran spiega che cosa sappiamo delle basi neurologiche di queste patologie ma soprattutto le sfrutta per capire qualcosa di più della mente umana, di come ci costruiamo una visione del mondo esterno e di noi stessi, di come e dove nasce la nostra coscienza. Perché «La nostra mente, le ambizioni, l’amore, ciò che riteniamo essere il nostro io, tutto è frutto dell'attività di piccoli ammassi gelatinosi nella nostra testa».

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