DIBATTITO/ La doppia morale degli ecologisti fa male alla ragione (e
alla vita) di Pietro Barcellona, martedì 12 giugno 2012, http://www.ilsussidiario.net
È veramente paradossale che nei
nostri tempi si debba sviluppare un movimento per la difesa della vita,
sollecitato e sostenuto dalla Chiesa cattolica, in opposizione alle culture
laiche che tendono a sottrarre i problemi della vita e della morte ad ogni valutazione
etico-sociale. Da che l’uomo ha preso coscienza di sé e della propria
mortalità, la vita umana è diventata oggetto di pensiero e riflessione. Come ha
scritto Maria Zambrano, la vita umana è “la vita che si sa”. Il sapere della
vita è anzitutto l’interrogazione sul senso del venire al mondo e sulla
destinazione verso la quale si dirige il nostro vivere quotidiano, il nostro
abitare il pianeta.
Da quando questa interrogazione
si è posta all’interno delle comunità umane, la vita è diventata il più grande
enigma di fronte al quale l’uomo si è trovato. Non a caso nella cultura greca
era tragicamente presente la domanda del perché nascere se poi si deve soffrire
e morire, e Giacomo Leopardi, in piena espansione della modernità, si chiedeva
nel Canto notturno di un pastore errante
dell’Asia: “se la vita è sventura, perché da noi si dura? Ma perché dare al
sole, perché reggere in vita chi poi di quella consolar convenga?”. Fino al
secolo scorso il significato della vita non era un “problema privato” sul quale
ciascuno poteva esercitare la sua assoluta libertà di decisione.
La rappresentazione di ciò che la
vita significa per l’essere umano come gioia e dolore, come godimento e
sofferenza è stata, almeno nella storia dell’Occidente, il tema di tutte le più
grandi manifestazioni del pensiero umano e della sua creatività, dalla
filosofia all’arte. È chiaro che il significato della vita, proprio per queste
ragioni, non è evidente agli esseri umani e non può considerarsi neppure
desumibile dal puro istinto di sopravvivenza che contraddistingue tutti gli
altri esseri viventi. Vivere per gli esseri umani non è sopravvivere, e tutto
ciò che ci caratterizza sotto ogni profilo pone la domanda del senso oltre il
puro orizzonte biologico della sopravvivenza.
È un’assoluta rottura con questa
tradizione l’idea contemporanea secondo cui tutto ciò che riguarda la vita e la
morte individuale sia una questione privata di cui ciascuno può disporre in
assoluta libertà. Anche la stessa libertà di decidere appartiene infatti al
dato indiscutibile che la vicenda umana è oltre il livello puramente biologico
della necessità evolutiva. Se l’uomo si interroga sul senso della vita è perché
questa domanda lo radica in uno statuto antropologico, storico-sociale, che ne
definisce l’assoluta originalità nel mondo vivente.
Accanto alla trasmissione
puramente genetica di caratteri che attengono alla nostra costituzione corporea
si è infatti realizzata nel corso dei secoli una costruzione sociale
dell’identità umana che, attraverso la mediazione dei rapporti fra i genitori e
i figli, ha rappresentato il vero filo rosso che ci mette anche oggi di fronte
al mondo nella condizione di porre domande a noi stessi e agli altri.
L’introduzione di un piccolo d’uomo in una comunità immette nella vita di
ciascuno una stratificazione di linguaggi e di rappresentazioni mentali che
costituiscono il patrimonio vivente di ogni gruppo sociale. Non c’è bisogno di
ricorrere al diritto naturale né ai precetti religiosi per giungere alla
conclusione che tutte le scelte relative alla nascita e alla morte non possono
essere affidate unicamente al libero arbitrio di ciascun individuo, uomo o
donna che sia. C’è una oggettività storico-sociale nella quale siamo immersi
sin dal nostro venire al mondo che impone di confrontare i nostri desideri con
la visione collettiva depositata nella tradizione culturale e di misurare la
nostra libertà con i limiti che derivano dal nostro essere individualità
determinate e mortali.
Non è soltanto la natura come
mondo che ci sta di fronte ad imporci di limitare il nostro immediato desiderio
di sfruttamento e di godimento, non è soltanto la necessità di fare i conti con
una realtà che ci sovrasta e della quale non possiamo avere per principio il
dominio assoluto, non è neppure un dio trascendente che ha dettato le sue
prescrizioni alle sue creature, ma il progressivo strutturarsi nei secoli di
uno statuto antropologico, storico-sociale, di cui ciascun essere umano è in
qualche modo artefice e responsabile. Abbiamo cioè una responsabilità collettiva
verso la natura come vivente non umano con il quale coabitiamo la terra, e
abbiamo anche la responsabilità verso la conservazione del patrimonio di
culture, conoscenze e principi che abbiamo strutturato come senso comune nella
nostra storia millenaria.
Il fatto che oggi, in nome di
un’assoluta libertà individuale, si proclami il diritto ad avere un figlio al
di fuori del processo storico-naturale che sinora ha contraddistinto l’evento
della nascita, o il diritto di disporre della fine della propria vita come
qualcosa di assolutamente privato, non riguarda soltanto la violazione di leggi
naturali o divine, ma significa la distruzione e l’annichilimento del nostro
stesso statuto antropologico. Solo se noi fossimo pure aggregazioni molecolari,
costruite in modo da funzionare solipsisticamente, e cioè senza alcun legame
con il mondo esterno, si potrebbe concepire una tale libertà senza limiti che
non siano puramente individuali. Per valutare allora ciò che oggi significa
pretendere una legislazione liberale che lasci scegliere a ciascuna donna o a
ciascun uomo il modo di avere un figlio e così pure di decidere se chiudere la
propria vita con un atto di autosoppressione volontaria, bisogna cercare di
approfondire sul piano storico-sociale che cosa significa ancora oggi venire al
mondo o morire per propria decisione.
In un inserto di Repubblica di
qualche tempo fa si poteva leggere una vera e propria apologia pubblicitaria
delle cosiddette fabbriche artificiali di figli che sarebbero vietate solo nel
nostro Paese e impedirebbero a molte coppie e a molti singoli di
realizzare il proprio desiderio di
maternità o paternità. A parte il fatto che molte donne hanno testimoniato
quanto sia doloroso e umanamente penoso il percorso che conduce al successo
dell’impiego delle nuove tecniche di procreazione, resta la questione che un
intero segmento del processo creativo di un figlio viene totalmente sottratto
ad ogni spontaneità psicologica e consegnato ad una logica meccanico-mercantile
che trasforma almeno una parte del processo in un colossale business economico.
Sono mille le considerazioni che
si possono fare per portare nel dibattito pubblico la verità oggettiva su ciò
che accade in queste vicende di assoluta manipolazione dei processi vitali che
conducono alla nascita di un essere umano. Anzitutto l’introduzione surrettizia
di una logica eugenetica, cioè di arbitraria selezione di chi ha diritto a
nascere, che può condurre ad un immaginario collettivo assolutamente mostruoso:
io non voglio avere un bimbo per rispondere all’istanza di continuare la vita
sulla terra e di manifestare attraverso la nascita il mio amore e il mio
desiderio di donare ad altri ma, al contrario, progetto un essere umano con
caratteristiche naturali, dal colore dei capelli alla conformazione fisica del
corpo, secondo uno standard astratto di uomo bello e forte che mi viene
trasmesso dalla cultura medico-scientifica.
La logica di produrre figli
secondo procedimenti meccanici di selezione di caratteri e qualità
desiderabili, in vista di una capacità di prestazione, è di per sé
un’aberrazione che sottrae all’esperienza dell’attesa, della gravidanza e del
parto l’intero patrimonio affettivo della lenta abitudine a sentire dentro di
sé il corpo di un altro essere vivente a cui dedicare le proprie cure.
L’aspetto abnorme di questa procedura di selezione, che può spingersi ad
ingravidare una donna di oltre cinquant’anni, è la prova evidente del carattere
puramente meccanico-artificiale attribuito alla nascita di un bambino. Non ci
vuole molta immaginazione per cogliere la differenza del rapporto affettivo che
si istituisce fra una giovane donna che ha voluto per amore mettere al mondo un
figlio a cui dedicare la propria vita, e una donna già anziana che potrebbe
desiderare soltanto di avere una compagnia per la propria solitudine.
Tutti gli esperti di psicologia
infantile che si sono occupati del problema hanno sempre sottolineato la
rilevanza obiettiva dell’influenza indiscutibile che i sentimenti di una donna
che porta in grembo un proprio figlio hanno sulle dinamiche psichiche del
nascituro. A differenza dei topi delle praterie americane, che secondo gli
scienziati accolgono anche i figli di altre femmine per difendere i piccoli
dall’assalto dei rapaci che piombano giù dal cielo, gli esseri umani desiderano
e vogliono la nascita dei figli all’interno di rapporti amorosi che sono il
collante di un intero gruppo sociale e del loro modo di abitare e di vivere.
È banale rispondere a queste
considerazioni che sempre più spesso i figli non nascono dall’accoppiamento con
il proprio partner e che fra il caso e la provetta è meglio la provetta. Non si
può infatti assumere ciò che accade per lo sfaldamento sentimentale delle
coppie come una regola che autorizza la liberalizzazione di ogni modo di
stimolare la procreazione. Il problema non è infatti introdurre divieti e
sanzioni, ma porsi la responsabilità di proporre alla società in cui viviamo un
modello di procreazione conforme al nostro statuto antropologico.
Proporre alla società l’idea che
i figli si possano produrre su commissione e con meccanismi artificiali induce
nell’individuo contemporaneo l’illusione di un’onnipotenza sulla natura che,
come la nostra società dimostra, produce effetti catastrofici. Si possono
capire le spinte individualistico-liberali che caratterizzano un’epoca di
neoliberismo selvaggio in cui sono stati sciolti e cancellati tutti i legami
sociali e il destino dell’umanità non è più un affare collettivo; ma bisogna
per lo meno produrre un dibattito pubblico in cui sia chiara la posta in gioco
di tutte le istanze libertarie e dei nuovi diritti che sembrano costellare le
nostre giornate.
Mi limito a chiudere queste
considerazioni con questa banale riflessione: è veramente strano che da tante
parti della società si invochi la necessità di misure contro la brutale logica
dei mercati finanziari di sottrarre alle decisioni individuali tutto ciò che
attiene al cosiddetto bene comune, e che si invochino giustamente limiti alla
ricchezza in nome della solidarietà e dell’equità redistributiva, e che poi
invece si affidi assolutamente all’arbitrio individuale ciò che riguarda la
vita e la morte dei membri della comunità nazionale (intesa naturalmente non
come organismo ma come insieme di gruppi). Non ci si può battere per una
visione solidaristica che tende giustamente a limitare l’arbitrio individuale
nell’uso delle risorse naturali e poi si proclami la radicale libertà
individuale nei campi della vita e della morte dove si sviluppa e costruisce
l’identità culturale dell’intera società.
Davvero non riesco a capire come
tutti in questo momento proclamano la priorità della questione ecologica,
proponendo limiti drastici allo sfruttamento delle risorse naturali, e poi
trascurano totalmente la rilevanza dell’ecosistema mentale che non può essere pensato
al di fuori di ogni contesto, così come tutti gli studi sull’interazione fra
uomo e natura hanno da secoli dimostrato. Non si può essere ecologisti in
economia e libertari sulle questioni della nascita e della morte.
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