OGM/ "Formidabili" quei campi di kiwi non ideologici... di Piero
Morandini, martedì 12 giugno 2012, http://www.ilsussidiario.net/
Nella presente situazione di
crisi, sia economica che generale di speranza in un futuro migliore, ciò di cui
abbiamo meno bisogno è l’ideologia, cioè di quel modo di guardare il mondo dove
le cose diventano irrilevanti, dove l’unica “cosa” che conta è l’idea
preconcetta che uno si è costruito.
L’ideologia dominante che andava
per la maggiore quando ero ragazzo era il marxismo. Tanti, anche fra i
cattolici, sentivano l’attrattiva di questo “modo di non-vedere la realtà”
(permettetemi questa sintetica, anche se brutta, definizione di ideologia) al
punto che, pur mantenendo la fede in una serie di contenuti evangelici,
percepivano il marxismo come l’unica modalità possibile per muoversi nella
società, per regolare i rapporti tra le classi. Circa 35 anni dopo quegli “anni
formidabili” farei fatica a identificare con chiarezza l’ideologia oggi
dominante, se una dominante esiste; ma mi colpisce ancora e sempre più
l’incapacità di guardare la realtà, l’assenza di disponibilità a farsi
interrogare dai fatti.
Queste considerazioni mi vengono
naturali nel leggere la vicenda del campo sperimentale della Tuscia, un piccolo
lembo di terra vicino a Viterbo dove l’Università della Tuscia ha alcuni campi
in cui fa le sperimentazioni sulle piante. Nell’ormai lontano 1998 il prof.
Eddo Rugini, docente, tra le altre cose, di coltivazioni arboree e con un
curriculum di tutto rispetto, aveva ottenuto dalle autorità competenti il
permesso per piantare in campo aperto un certo numero di piante transgeniche di
kiwi, olivo e ciliegio. Le piante in questione erano state create per
modificarne la forma (mantenendoli di dimensioni ridotte) o per cercare di
aumentarne la resistenza ai patogeni.
Occorre sottolineare che questi
caratteri sono ricercati da molti decenni; il primo (le dimensioni ridotte)
perchè un albero da frutto di grosse dimensioni rende molto costosa e
pericolosa la raccolta dei frutti. L’importanza del secondo carattere
(resistenza ai patogeni) è evidente se si considerano un semplice dato: circa
un terzo del raccolto va perso in buona parte a causa di patogeni come funghi e
batteri.
Chi sviluppa nuove varietà ha
sempre cercato piante più resistenti per limitare il ricorso ai fitofarmaci
(senza i quali, peraltro, le perdite di raccolto sarebbero più che doppie
rispetto alle attuali) e per fare questo ha sempre “pacioccato” con i geni e lo
ha fatto con metodi molto più invasivi e grossolani della transgenesi, come ad
esempio la mutagenesi con radioattività, le ibridazioni forzate, la coltura di
antere e molti altri ancora. Senza tutto il lavoro dei miglioratori genetici
che hanno aumentato la produttività, facilitato la raccolta e migliorato la
qualità, oggi il cibo costerebbe di più e molte meno persone avrebbero accesso
a una sana alimentazione; anche se non è detto che di fatto si nutrano
correttamente, ma questo è lasciato alla libertà di ciascuno.
Il campo sperimentale e le
ricerche di Rugini si collocano quindi a pieno titolo nella tradizione di
sperimentazione iniziata con la nascita dell’agricoltura e delle piante coltivate
circa 12.000 anni fa. Non solo. Chiunque
affermi che la transgenesi rappresenta un metodo innaturale e invasivo per
operare una modifica genetica non dice il vero. Chiunque sostenga che i metodi
convenzionali di sviluppo delle nuove varietà (in uso da millenni e affinati
dagli scienziati a partire da un secolo e mezzo) non comportino modifiche
genetiche, tradisce solo la sua ignoranza.
Il campo sperimentale -
autorizzato, lo ripetiamo, nel 1998 - è andato avanti per 10 anni, perchè tale
era la durata del permesso. Purtroppo per alcune specie arboree 10 anni sono
ancora poco perchè alcune iniziano a produrre fiori e frutti in tempi più
lunghi; inoltre per alcuni caratteri è opportuno raccogliere dati in più
annate; non ultimo - in un momento dove la ricerca in generale è fortemente
sotto-finanziata e quella sulle piante lo è in maniera sistematica, se non
osteggiata o distrutta quando coinvolge l’uso di piante transgeniche - mancano
fondi per continuare le ricerche e confermare i dati positivi finora ottenuti.
Allo scadere del permesso, Rugini
ha fatto richiesta di poter continuare la ricerca, cioè di poter lasciare le
piante dove erano in attesa di tempi e fondi migliori. Distruggerle avrebbe
significato distruggere un patrimonio costruito in tempi lunghi e con fatica,
con finanziamenti pubblici e per il bene pubblico. La prima richiesta di
proroga presentata nel 2009 è stata respinta per impossibilità di ottemperare
alla normativa regionale vigente in merito al confinamento dei campi
transgenici. La normativa regionale (con un regolamento approvato nel 2007 e
quindi emanato ben dopo che era stata approvata la sperimentazione) è infatti
talmente draconiana per le prove in campo che non è più possibile chiamarle
“prove di campo”, perchè occorre costruire intorno alle piante strutture dotate
di tetto, pavimento e filtri per impedire la dispersione del polline.
La normativa nazionale è ancora
in alto mare in quanto i ministeri non vogliono (o non riescono) ad emanare i
protocolli necessari a dare il via alla sperimentazione. Tali protocolli, vale
la pena di ricordare, esistono, ma non sono mai stati approvati per il veto di
questo o quel ministro. Rugini ha risposto cercando di argomentare
ulteriormente che:
1) non esisteva alcun problema di
dispersione di polline perchè i ciliegi e gli olivi transgenici o sono sterili
o non hanno raggiunto la maturità sessuale, mentre alle piante di kiwi maschio,
le uniche a produrre polline, venivano rimossi tutti i fiori;
2) che in queste condizioni
sarebbe stato sensato continuare a mantenere il campo in attesa di trovare i
fondi per finire la la sperimentazione. A questa seconda richiesta non è stata
data risposta.
A questo punto è però intervenuto
Mario Capanna, un laureato in filosofia (e lo dico senza disprezzo alcuno per lui
o per la filosofia) che ha iniziato un’intensa campagna perché si arrivi alla
distruzione del sito sperimentale: «È una situazione di stupefacente illegalità
che va sanata al più presto – dice Capanna, presidente della fondazione dei
Diritti genetici, a L’Espresso -. Per questo abbiamo chiesto ai ministeri
dell’Ambiente e dell’Agricoltura e alla Regione Lazio di procedere allo
smantellamento del campo. E, prima, di avviare rapidamente un programma «di
ricerca sull’impatto di quelle stesse piante transgeniche».
Tralascio la consistenza del
programma di ricerca proposto dal filosofo e mi soffermo sulle motivazioni.
Secondo Capanna «...il procrastinarsi di tale situazione pone seri rischi di
contaminazione genica di varietà tradizionali di ciliegio ed olivo che
abbondano nella zona immediatamente a ridosso dell’azienda universitaria».
Eppure, come sopra descritto, né i ciliegi né gli olivi producono polline! (i
lettori possono leggere l’intervista a Rugini che espone nel dettaglio le sue argomentazioni). Riguardo al kiwi, la
premessa della lettera di Capanna è stupefacente perché inizia sottolineando
«...l’assenza nell’area di sperimentazione di coltivazioni di kiwi...», facendo
dunque presagire, secondo logica, che non esista alcun rischio di contaminazione
(che non esisteva comunque visto che i fiori venivano rimossi, ma tant’è) e che
quindi almeno il kiwi transgenico si potrebbe lasciar stare. Ebbene, sulla base
di quella premessa, la conclusione a cui giunge è la seguente: «si propone di
procedere alla loro immediata dismissione». (Domanda retorica: chi era il
docente di logica all’Università Cattolica nel ’68? Se il pericolo, a sua
detta, è la contaminazione delle colture circostanti, ma questa contaminazione
non può tecnicamente avvenire, dov’è il pericolo?).
Questo fa pensare che a Capanna
non interessino i rischi per l’ambiente o per la salute (rischi che, in questo
caso, dopo circa 25 anni di lavoro e ricerca nel settore della genetica
molecolare e della biologia vegetale non riesco neanche a formulare o
immaginare) ma questi vengano solo paventati al fine di acquisire visibilità
mediatica.
La lettera testimonia quindi la
filosofia di fondo della Fondazione di Capanna e la posizione di molti
movimenti di difesa dell’ambiente. Sottolineano il rischio. Parlano di
contaminazione irreversibile. Argomentano di agricoltura e di biologia vegetale
e discettano di miglioramento genetico senza mai averle praticate. Ma questa
filosofia e questa posizione dimenticano la realtà, sia quella testimoniata
dalla pratica agricola che quella enucleata dalle scienze che si occupano di
questi argomenti (biologia, biotecnologia, genetica, tossicologia...), realtà
che provo a condensare in due affermazioni.
a) Tutte le colture attuali sono
state pesantemente modificate dal punto di vista genetico; senza tali modifiche
sarebbero inadatte alla coltivazione, spesso immangiabili perchè tossiche e con
una resa ridicola. Senza le colture dovremmo tornare a fare i cacciatori e
raccoglitori per nutrirci di ciò che spontaneamente la natura ci fornisce.
Peccato che solo una persona su mille potrebbe sopravvivere e a stento.
b) Tutte le colture sono piante
deboli e non sopravvivono senza l’aiuto dell’uomo; se noi smettessimo di
coltivarle, scomparirebbero nel giro di pochi anni. Questo permette di
affermare con sicurezza che nessuna pianta coltivata, transgenica o meno,
comporta rischi superiori a quelli posti dalle piante selvatiche.
A far maggiormente riflettere è
l’acquiescenza dei ministeri alle richieste di distruzione. Nella lettera del
Ministero per l’ambiente si legge: «...questo ministero ha provveduto ancora
una volta ad invitare l'Università degli Studi della Tuscia a procedere
all'immediata dismissione del sito di sperimentazione...». Nella lettera si
parla di «...prioritaria necessità di assicurare la dismissione e la bonifica
del sito...». Perchè prioritaria? Per uccidere del tutto la ricerca pubblica
italiana nel settore? I migliori alleati che permettono alle multinazionali di
mantenere il quasi monopolio del settore sono i burocrati ministeriali, i
legislatori italiani ed europei e i movimenti ambientalisti. Senza questi
attori la normativa sarebbe più sensata o applicata più sensatamente e lo
spazio per la ricerca pubblica sicuramente maggiore.
La distruzione del campo sperimentale
sarà un segnale chiarissimo mandato a tutto il mondo della ricerca pubblica: «è
inutile lavorare su queste cose, tanto ogni ricerca non può uscire fuori dai
laboratori e quindi non può produrre niente di veramente utile per il mondo».
Ma quale ricercatore serio di fronte a questa prospettiva continuerà a lavorare
in questo ambito?
Uccidendo la ricerca in campo ci
stiamo non solo negando le (enormi) possibilità già sperimentate in
laboratorio, ma probabilmente anche quelle in attesa di essere scoperte o
inventate. Molte ricerche verranno terminate o nel migliore dei casi
emigreranno verso paesi più accoglienti.
Purtroppo la scienza non è come
un rubinetto che si apre e si chiude quando si abbia bisogno dell’acqua. Una
volta chiuso il rubinetto, non si riapre se non dopo anni, perchè tutto un
patrimonio di conoscenze, competenze, personale e strumentazioni è andato
disperso e rimetterlo insieme può richiedere molto tempo, molto più di quello
che possiamo permetterci. Solo per fare un esempio, se ci fossimo accontentati
delle varietà di frumento e di mais di 100 anni fa, la nostra produzione
agricola di queste due colture sarebbe tra 1/4 ed 1/6 di quella attuale, con
conseguenze che vi lascio immaginare. Bloccare la ricerca rischia di causare
enormi danni in un futuro non troppo lontano.
© Riproduzione riservata.
Nessun commento:
Posta un commento