Giovedì 7 giugno 2012 - NEUROBIOLOGIA DELLA MORALE (II) - da Alberto Carrara http://acarrara.blogspot.it/2012/06/neurobiologia-della-morale-ii.html
Inizio oggi, come anticipato,
dopo la presentazione dello scorso 16 maggio, l’analisi delle diverse parti del
libro Neurobiologia della morale (Raffaello Cortina Editore, Milano 2012) della
filosofa americana Patricia S. Churchland.
Ricordo soltanto che il titolo
dell’opera, uscita nel 2011 dalla Princeton University Press, è il seguente:
Braintrust. What Neuroscience Tells Us about Morality.
Indicativa a mio avviso, è una
delle due citazioni apposte in apertura del volume, precedente i
ringraziamenti. È una frase di Ian McEwan tratta dall’opera Eternal Love che
recita così:
«Questo è il dilemma di noi
mammiferi: cosa dare agli altri e cosa tenere per te stesso. Seguendo questa
linea, tenere gli altri sotto controllo, ed essere tenuti sotto controllo da
loro, è ciò che chiamiamo moralità».
Emerge in primis, con parole più
moderne, la definizione classica della virtù della giustizia: “dare agli altri
il loro proprio IUS (diritto)”.
Nel passaggio seguente, tale
virtù viene applicata al contesto sociale deducendone una definizione di
“moralità”. A mio avviso questo è improprio e scorretto. La definizione non è
quella di moralità, bensì di mera giustizia legale propria di un sistema
contemporaneo di retribuzione, di pene, di diritti e doveri puramente
estrinseci.
Il “tenere gli altri sotto
controllo, ed essere tenuti sotto controllo da loro” non ha nulla a che vedere
con la moralità! La moralità ha un legame propriamente interno, cioè intrinseco
all’essere umano che giudica (interiormente) sulla bontà/malizia dei propri
atti.
Bisogna anche tenere in
considerazione che quando si dice “atti” non ci si sta riferendo esclusivamente
ad azioni esterne, visibili, perciò "provabili" (nel senso di
verificabili da terzi mediante prove, ad esempio legali), ma prevalentemente ci
si riferisce all’intenzionalità, alla decisione e scelta interiore del soggetto
che aderisce ad un bene o ad un male morale.
Nei RINGRAZIAMENTI la Churchland
annovera un amico, il dottor Bill Casebeer che l’anno scorso ha partecipato ad
uno dei nostri seminari del Gruppo di Neurobioetica presso l’Ateneo Regina
Apostolorum. Su Bill afferma:
«mi ha convinto che i principali
argomenti contro una concezione scientifica delle basi della morale sono
sbagliati e che sia Aristotele sia Hume erano filosofi morali per i quali una
neurobiologia della morale avrebbe avuto senso».
Tenendo in considerazione un
pressupposto importante, quello cioè che la stessa Churchland afferma quando
parla di “basi della morale”, ci si sta riferendo ai sostrati neurofisiologici,
neurobiochimici, neurostrutturali, etc. che supportano l’espressione della vita
morale dell’essere umano, cioè di quelle strutture biologiche che mediano
l’espressione della moralità.
Precisando questo, anch’io
personalmente credo che Aristotele non avrebbe nulla in contrario, da
scienziato naturalista qual era, di indagare le basi neurobiologiche
dell’esperienza morale umana.
Certamente, tali basi andrebbero
poi integrate nella cornice più vasta dell’esperienza e della costituzione
antropologica dell’individuo umano che si denota per la sua complessità e per
una sorta di impossibilità intrinseca di “afferrarlo” e di dominarlo, comprendendolo
scientificamente in toto.
Nessun commento:
Posta un commento