LETTURE/ Perché l'anima ci fa così male?, di Fabrizio Sinisi, giovedì
14 giugno 2012, http://www.ilsussidiario.net
Se essere poeti non è soltanto il
guizzo intuitivo e formale di una singola esecuzione, ma anche (e forse
soprattutto) una paziente e testarda modalità di dialogo con le cose,
un’instancabile fedeltà alla propria vocazione, allora Giovanni Raboni è stato
senz’altro tra i più importanti poeti del nostro secondo Novecento. La parabola
poetica di Raboni ha infatti come sua costante una pazienza, una fedeltà alla
poesia vissuta come inesausta registrazione critica della vita: una
registrazione che lo vede, nel tempo, sempre al centro della scena, a fare i
conti con il proprio tempo, con le urgenze del presente, in un dibattito agonico
vissuto sempre in prima persona.
Fedele al proprio tempo, ma anche
al proprio luogo e al proprio popolo: proprio quella Milano che Raboni non ha
mai rinnegato, sentendola “propria” a prescindere da ogni contraddizione, sua
non per elezione ma, si potrebbe dire, per natura: per destino. È poeta civile,
Raboni, proprio per questa sua configurazione quasi indivisibile dal corpo
della civitas, come acutamente scrive Andrea Zanzotto: «Le origini di Raboni
(...) si manifestano subito fortemente connesse a un’idea dell’impossibilità di
agire nella solitudine (...) Si delinea progressivamente il senso di un destino
che, se rifiutato, diventerebbe persecutorio». Questo indiscusso amore per la
propria città rende Milano continua occasione di metafora, e metafora essa
stessa: «La topografia, in Raboni, diventa storia, ragione privata e sociale al
tempo stesso: sulla faccia di Milano, sui muri lebbrosi o nei quartieri
“risanati” egli ritrova il disegno della propria vita» (Luigi Baldacci).
Del resto, il peso culturale che
Raboni ha avuto gli permetterebbe un posto di primo piano nel panorama del
nostro secolo anche se non avesse mai scritto un verso in proprio: Raboni è
stato critico e saggista eccezionale, ma soprattutto grandioso traduttore: da
Racine, da Baudelaire, da Apollinaire, da Proust. Ed è un’umiltà, quella del
Raboni traduttore, che lo porta a crescere quasi in osmosi con l’opera altrui –
a misurare la propria opera anche nel dialogo con l’opera di un altro. E anche
quella che è stata spesso ingiustamente definita la “modestia”, la tenue
prosasticità della sua poesia, è in realtà il tentativo di superare qualsiasi
suggestione romanticheggiante sulla letteratura (la decadente casualità
dell’“ispirazione”) in favore di una convivenza, di un confronto che – anche se
drammatico – sia quotidiano, fedele: appunto, vocazionale.
Quello di Raboni è un discorso
lungo e, spesso, difficile – ma con moltissimi punti d’attenzione. Non potendo
compiere una “carrellata” minimamente esaustiva del suo lavoro poetico, mi
interessa qui mettere in luce tre sole brevi poesie: tre “contraccolpi”, tre
trasalimenti che, fra i tanti, illuminano questo suo percorso, e conferiscono
qualcosa come una rifrazione “altra”, un significato diverso ad una parabola
poetica che potrebbe sembrare, altrimenti, solo un percorso di progressiva
amarezza personale e storica. E la poesia di Giovanni Raboni è molto più che la
storia – sia pur formalmente altissima – di uno sgomento.
È emblematica, a questo
proposito, la prima di una serie di poesie dal titolo Stanze per la musica di
Adriano Guarnieri. Per un felice paradosso, in verità non raro nella storia
della letteratura, una delle poesie più belle di Raboni viene scritta, in un
certo senso, su commissione – dietro un invito. La riportiamo per intero:
Quare tristis – perché
sempre, nella veglia e nel sonno,
nell’omissione e
nell’adempimento,
l’anima ci fa così male?
Noi che la custodiamo
senza amarla, senza conoscerla
nella gabbietta delle nostre ossa
come il vetro d’una lanterna
custodisce la fiamma
sappiamo soltanto che è lei,
lei che non ha né tendini né
sangue,
la compagnia più sanguinosa.
Tu come lei invisibile
proteggici dal suo silenzio,
fa’ che sentiamo in tempo la sua
voce.
La cifra della ricerca raboniana
è proprio in questa “contraddizione non contraddittoria”: in un riconoscere
senza accettare, un “sapere” privo d’amore, lì dove però l’amore è la cosa più
desiderabile – fitto nell’agone con un mistero così ineffabile, così
apparentemente discreto, e che tuttavia «ci fa così male», che è per noi «la
compagnia più sanguinosa». E quell’allocuzione finale, l’irrompere di un Tu non
chiarito, non formalizzato: quasi sussurrato, eppure immane, pur così masticato
tra i denti – così intimo col fondo della persona.
Una posizione simile la
ritroviamo all’interno di un libro molto più tardo, Barlumi di storia, proprio
dove l’amarezza esistenziale, politica e storica sembra essere arrivata al suo
approdo definitivo, troviamo una constatazione che è folgorante, per la sua lealtà,
la sua capacità di ricapitolare e sorprendere senza censure un fattore
inaspettato: un’indomabilità del cuore che sempre risorge, nonostante tutto, e
che non può spiegarsi da sé. Anche qui irrompe, sommessa, la possibilità di
qualcosa d’altro – di un altro respiro accanto al proprio, dentro il proprio.
Per nessuna ragione,
sapendo quello che succede,
mi vorrei risvegliare in questo
mondo.
Ma già pensandolo (pensando
di pensarlo) so anche
che non è vero, che per quanto
ignominioso sia il presente io
mai
rinuncerei, potendo scegliere,
a starci, magari di sghembo
e rattrappito d’amarezza, dentro.
Forse, mi dico allora,
non è per me che parlo, è qualcun
altro,
nato da poco o nascituro,
ad agitarsi nel mio sonno, a
premere
da chissà dove sul mio cuore,
a impastare parole col mio
fiato...
Raboni ha la sua altezza più
significativa forse proprio in questi momenti: nello stupore di trovarsi
diverso da come si era programmato e immaginato. È qui che egli trova il nervo
più vivo del proprio interrogare. E penso a un brevissimo componimento che
Raboni, pur da sempre simpatizzante per la sinistra comunista, scrisse dopo
l’assassino del commissario Luigi Calabresi per mano di alcuni esponenti di
Lotta Continua, il 17 maggio 1972. Raboni dedica una poesia a quel Calabresi
che, nella logica dell’ideologia di quegli anni, era – o doveva essere – il
“nemico”:
Disegnato col gesso come era
sul marciapiede il mondo si
cancella.
Mi vedo perdere colpi, avere
pietà
del questore giustiziato, del
carabiniere in salita.
Che occasione, in questi giorni
in cui è ancora notizia l’arresto dell’autore dell’attentato di Brindisi, non
solo la possibilità di sorprendere – quasi come malgrado noi – l’insorgere
della pietà, ma anche interrogarne la fonte e la natura, di questa pietà non
nostra, che sembra introdursi tra le griglie del dolore, della rabbia, del
risentimento, dell’ansia di vendetta – e ne interpella le asprezze, le
trasforma in qualcos’altro – ne allarga la domanda, ne ridimensiona la statura.
Interrogare questo, alla luce di questi versi, può portare a chiedersi se in
questa situazione, in un insorgere di umanità diversa, di urgenze nuove, se si
«perdono colpi», se il mondo «disegnato col gesso / si cancella», oppure
diventa, in qualche modo misterioso, più vivo, più reale, più vero.
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