mercoledì 13 giugno 2012


Rimane il divieto della eterologa, ma avanza il relativismo giuridico, 12 giugno, 2012, di Aldo Vitale*, *ricercatore in filosofia e storia del diritto, http://www.uccronline.it

Lo scorso 22 maggio la Corte Costituzionale, adita per giudicare della legittimità costituzionale del comma terzo dell’art. 4 (“E’ vietato il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo”) della legge 40/2004, ha restituito la questione e gli atti ai giudici ( di Firenze e di Catania ) che avevano sollevato i dubbi di costituzionalità della norma in questione.

Bisogna cominciare dall’inizio, cioè dallo statuto etico-giuridico dell’embrione, i diritti del quale sono positivisticamente tutelati proprio dall’art. 1 della legge 40/2004 disciplinante le tecniche di PMA, e che oltre ad essere oramai riconosciuto come ente autonomo dalla genetica e dall’embriologia, è anche tutelato nell’ambito etico-giuridico come qualcosa di più di semplice materiale organico. Del resto, lo stesso Comitato Nazionale perla Bioetica si è espresso in questo senso, cioè nell’obbligo di osservare la posizione giuridica ed etica dell’embrione, già con il suo parere del 1996.

Osserva sul punto il costituzionalista americano dell’Università di Princeton Robert George che «l’adulto che oggi siamo è lo stesso essere umano che, in una fase precedente della propria vita, era un adolescente e prima ancora un bambino, un neonato, un feto ed un embrione.[…] Un embrione umano non è qualcosa di diverso, nella specie, da un essere umano, come lo è una roccia, una patata o un rinoceronte. Un embrione è un individuo umano nel primissimo stadio del suo sviluppo naturale.[…] Le fasi embrionale, fetale, neonatale, infantile ed adolescenziale sono esattamente questo, fasi nello sviluppo di una determinata e perdurante entità ( l’essere umano ) che nasce come organismo monocellulare ( zigote ) e si sviluppa, se tutto va bene, fino alla fase adulta molti anni dopo».

Tutto ciò premesso, da costituire parte integrante e punto fermo e fondamentale per ogni ulteriore considerazione, per mezzo della recente decisione la Corte Costituzionale non ha eliminato il divieto di procreazione eterologa, richiamandosi alla sentenza della Grande Chambre della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del novembre del 2011 con cui fu dichiarato legittimo l’analogo divieto di procreazione eterologa posto dalla legge austriaca in quanto, secondo la toga europea, esso era in linea con le tradizioni culturali ed etiche dell’Austria e poiché in simili questioni deve sempre essere riconosciuta la autonomia dei singoli Stati per legiferare.  Tuttavia la decisione recente della Corte Costituzionale è in sostanza una decisione che scontenta tutti in quanto si fonda su una pronuncia, quella europea, che è fondata più su motivi ideologici e politici che su salde fondamenta giuridiche.

Essendo resa la decisione della CEDU volatile dalla insostenibile leggerezza del relativismo giuridico che la struttura visceralmente dall’interno ( in sostanza: ogni Stato faccia come crede perché ci sono tanti buoni motivi per ammettere l’eterologa, quanti buoni motivi per vietarla, o meglio non ci sono motivi sufficienti né per ammetterla, né per negarla ), la pronuncia della Corte Costituzionale che ad essa si riferisce non può che essere contagiata dallo stesso esiziale morbo, cioè l’incapacità di trovare una ratio juris, di carattere eminentemente gius-filosofico, della norma che consente o vieta la procreazione eterologa. Per questo sarà molto probabile che nei prossimi mesi o anni la norma tornerà all’attenzione delle toghe nazionali.

Ma proprio a questo punto si giunge al punctum dolens. Chi sostiene la legittimità della eterologa, ritiene, in sostanza, che essa rappresenti un bene in quanto si concede l’occasione ad una coppia, altrimenti impossibilitata, di avere un figlio (pur non rendendosi conto della contraddizione interna di un simile ragionamento, poiché ricorrendo ad un donatore di ovulo o di sperma, il figlio non sarà mai effettivamente ed interamente della coppia sterile o infertile, ma di uno dei due componenti della coppia e del terzo donatore). Chi sostiene la illegittimità giuridica ed etica, invece, sottolinea che il problema della soddisfazione di un desiderio di genitorialità non può tradursi in una pretesa giuridica alla genitorialità, cioè in un diritto alla genitorialità, o meglio, in un diritto al figlio, poiché se un tale diritto fosse davvero configurabile, soggetto del diritto sarebbero i genitori (e si dovrebbe avere la capacità di considerare sempre e di superare l’antinomia già delineata sul ruolo genitoriale), ma oggetto del diritto sarebbe il figlio.

Una elementare cognizione dei più rudimentali principi di filosofia morale dovrebbe già lasciar trasparire la difficoltà insita nel considerare un soggetto (il figlio) come un oggetto dei diritti di altri soggetti (i genitori). Non occorre scomodare la solida tradizione illuministica dell’etica kantiana (quella per cui l’umanità degli altri deve essere considerata sempre come fine e mai come mezzo), per comprendere che un ente o è oggetto o è soggetto di diritti. A ciò aggiungasi che la natura del diritto non consiste nella mera legalizzazione dei desideri dei singoli o nella mera copertura formale delle istanze sociali storicamente determinate; il diritto esprime ciò che è giusto, cioè ciò che è razionale: e, come si evince, non è razionale, poiché non è logicamente componibile nella sua insanabile contraddizione, trattare un soggetto (il figlio) come un oggetto (dei desideri dei propri genitori).

Se così non fosse perché non riammettere la schiavitù? Perché celebrare la shoah? Perché punire la tratta di essere umani? Perché vietare in tutta Europa la maternità surrogata a pagamento? Perché considerare tante condotte umane (la prostituzione, la compravendita dei voti, la compravendita degli organi umani, l’omicidio rituale, lo sterminio economicamente giustificato e pianificato, il sacrificio umano, solo per fare qualche esempio) eticamente e giuridicamente illegittime? Il divieto di procreazione eterologa, allora, trova una sua più profonda e più umana, cioè più etica e razionale, giustificazione nell’impossibilità di trattare una persona, a prescindere dal suo stadio di sviluppo, dalla sua posizione sociale o economica, dalla sua stessa concezione della vita e del diritto, come un mero oggetto per la soddisfazione dei desideri o delle necessità altrui.

Ecco allora che quanti sostengono il diritto al figlio non colgono il rischio di stravolgere il senso stesso del diritto, di usarlo contro il figlio, cioè di negare, in definitiva i diritti del figlio stesso. Tramite una traballante e scricchiolante giurisprudenza europea e nazionale, di merito e costituzionale, esplode il paradosso notato dal filosofo Marcel Gauchet: il desiderio del figlio, si trasforma nel figlio del desiderio; dalla intuizione di Gauchet deriva per incoercibile necessità logica che in brevissimo tempo il diritto al figlio dia vita al figlio di diritto, tramutandosi infine nella negazione dei diritti del figlio. Una metamorfosi che destruttura e disintegra il ruolo, l’identità e la natura di tutti i soggetti coinvolti (non esclusi i medici) e, soprattutto, del diritto che alla fine non esprime più il giusto, ma soltanto il desiderato (a prescindere dalla sua ragionevolezza o razionalità).

In conclusione, per scoprire e comprendere la ratio juris del divieto di procreazione eterologa e per diagnosticare l’anemia giuridica e la distonia etica di molte decisioni giurisprudenziali pur di alto grado giurisdizionale, occorre tener presente ciò che aveva già intuito Emmanuel Mounier, per il quale «la persona è la gratuità stessa».

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