A proposito di embrioni - Parole nostre, figli nostri, Davide Rondoni, http://www.avvenire.it/
Ci passiamo sopra come fili
d’erba. Le pieghiamo. Come fosse niente. Ma ci sono parole che non si possono
calpestare. Quando lo si fa, se pure con buone intenzioni, si sta calpestando
l’aiuola del vivente. È un paradosso: siamo ligi con le aiuole nelle nostre
piazze, ma calpestiamo parole-aiuole senza pensare alle conseguenze. Ci stiamo
calpestando il corpo e l’anima. Ci tocca vivere un’epoca in cui parole elementari
(padre, figlio, vita…) sono sottoposte al diverbio, allo scontro. Epoca dura
ben più di altre. Occorre avere un cuore grande verso tutti – anche chi si pone
distante su questioni così radicali – un cuore pieno di pazienza verso se
stessi e verso tutti. E però essere guerrieri contro gli errori sulle
parole-aiuola, contro i calpestamenti, i lievi feroci fraintendimenti.
Si accampa come scusa che tale
"confusione" nasca dai progressi della scienza, dalle possibilità
della tecnica. Ma sono scuse. La scienza autentica non confonde le parole, il
loro senso. Semmai ci invita a inventarne di nuove. Ma embrione e figlio sono
le parole valide per quel che è in gioco. Le confusioni nascono prima o dopo,
nella cultura, ovvero nel senso critico che le persone maturano circa la vita e
il suo significato.
Una ragazza che decide di
abortire non lo fa perché convinta dalla scienza, ma dalla solitudine, dalla
disperazione con cui ha imparato a guardare la vita. E chi non sente un brivido
nel pensare che per assecondare un pur legittimo desiderio di avere figli (e
possibilmente sani) si passa sopra al diritto di nascere di creature
infinitamente piccole e perciò indifese come siamo stati noi e i nostri figli,
non ne è immune a causa della scienza e della tecnica, ma perché ha smesso di
tremare per gli esordi, per le cose fragili della vita. E ragiona ormai in
termini di difesa dei diritti più facili ed evidenti, che sono sempre i diritti
del più forte.
È alla ribalta la parola
embrione. E allora ci tocca riguardarla, questa parola un po’ fredda che si usa
per indicare qualcosa da "buttare" se occorre. Come una materia,
entro cui scartare la difettosa e tenere la migliore. Come si fa con la stoffa,
le zucchine, o le foglie di tabacco. E sì: con la parola embrione facciamo i
furbi. La usiamo perché sembra fredda, scientifica, distante. Ma essa indica
quella stessa realtà che nella pancia della nostra donna lei e noi chiamiamo
"figlio". La medesima. Identica. Nessuno ha mai detto: sai, aspetto
un embrione. Ma un figlio. Perché la realtà è la medesima. Però se non parliamo
della nostra pancia, usiamo (usano) la parola "embrione". La stessa
cosa, ma così la distanziamo. E può esser congelata, buttata, scartata.
In questo cambio di parola ci sta
un precipizio di pensiero, una astuzia, a volte un egoismo. Proviamo a
pronunciare: si congelino pure migliaia di "figli". O: "scartate
tre figli e tenetene uno". La parola "embrione" che da radice
greca indica una cosa che "nasce" dentro un’altra cosa è una parola
dolcissima, tenuissima. Indica il primario muoversi e germinare di un essere. È
già l’uomo che sarà, dice solo che nasce dentro un altro. Che sia un essere in
sviluppo e non già pienamente attuato non significa una differenza di qualità.
Non sarà mai nient’altro che un uomo. Non gatto, né delfino, né airone. È un
nascente uomo da dentro sua madre – o forse il fatto che sia in un
"bidone" lo rende eliminabile?
La legge in discussione, la legge
40, è utile e per tanti aspetti saggia, ma come tutte si può perfezionare. Ora
la discussione riavvampa. Se servirà a far aumentare il tremore in tutti
dinanzi a certe parole, allora lo scontro culturale, il diverbio, la fatica del
ragionamento saranno serviti a qualcosa. Un particolare contributo diano le
donne, che sanno cosa è avere un embrione, un figlio dentro il proprio corpo. E
sanno cosa è tremare infinitamente.
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