SCIENZA & FEDE/ Di Francesco: dai neuroni all'io, un
"salto" impossibile - INT. Michele Di Francesco - martedì 21 agosto
2012 - http://www.ilsussidiario.net
«Un matematico può essere anche
artista». Due uomini, due infiniti esplorati attraverso la creatività o i
ranghi serrati della logica. Nell’un caso e nell’altro, l’infinito c’è, opera
nella nostra mente. Il filosofo lo studia, ascolta ciò che dicono le neuroscienze,
interpeta. Pone domande. L’importante, spiega Michele Di Francesco, filosofo
della scienza, ospite oggi al Meeting di Rimini, è non pretendere di ridurre
tutto ad un unico discorso, a discapito di quello che la scienza oggi ci fa
conoscere. I neuroni non spiegano tutta la realtà, ma non lo fanno nemmeno le
pennellate di Monet. Che l’infinito si faccia carne, però, è questione di fede,
dice Di Francesco.
Professore, il titolo del Meeting
di quest’anno afferma che l’io di cui lei parlerà nel suo incontro di oggi, è
in rapporto con l’infinito. Una bella sfida per un filosofo di professione.
Il titolo è molto bello e
personalmente sento cone esso una grande affinità intellettuale. Se riflettiamo
sulla scienza moderna vediamo che essa nasce dal tentativo di articolare il
rapporto tra l’empirico e il razionale, tra sfera dell’esperienza e ambito
delle verità universali. A costituire problema era, per l’appunto, un mondo nel
giro di pochissimi anni concepito come illimitato, infinito. Subito apparve chiaro
che conciliare natura e infinito, passando da una prospettiva soltanto
teologica ad una che tenesse conto delle scoperte della scienza, apriva nuovi
orizzonti, tutti problematici. Uno di questi è quello del rapporto di anima e
corpo.
Che posto ha la soggettività
nella nuova visione inaugurata dalla cosiddetta filosofia della mente? O, in
altri termini: c’è contraddizione tra il sé dell’io e gli elementi biologici,
neurofisiologici che lo compongono?
Alcuni vi vedono una
contraddizione. Le neuroscienze ci dicono he la nostra mente, le nostre
capacità cognitive, sono il prodotto di moltissimi moduli e agenzie che
lavorano separatamente e che possono essere ridotti a funzioni sempre più
piccole e minimali, «stupide», fino ad arrivare al neurone, ossia alla cellula.
È il tentativo di spiegare l’intelligenza, potremmo dire, riducendola ai suoi
costituenti minimi. Ma qualcosa, naturalmente, si perde.
A che cosa allude?
Al fatto che in questa
prospettiva non sembra trovarsi facilmente spazio per la nostra nozione di
individualità: al fatto che, per esempio, una persona rimane la medesima nel
tempo attraverso il cambiamento che occorre al suo corpo, al suo cervello e a
tutte le sue caratteristiche biologiche. Fino a che legittimamente si pone la
domanda finale: l’unità della nostra mente è un’illusione o è una realtà?
Lei cosa risponde?
Innanzitutto, che siamo di fronte
oggi ad un eliminativismo (una forma accentuata di riduzionismo, ndr) un po’
frettoloso. Si parla per esempio, portando alle estreme conseguenze una
impostazione humiana (dal filosofo empirista David Hume, 1711-76, ndr) di
«società della mente». Se noi siamo solo fasci di percezione, una unità
ontologica della persona viene a mancare. «Persona» sarebbe soltanto una
nozione forense. D’altra parte - ed è il secondo aspetto che non si può non
tenere in considerazione - i dati della scienza ci sono e come tali non possono
essere ignorati.
Ma c’è un «io» che è più dei suoi
fattori cerebrali? Quale tipo di realtà dovremmo attribuirgli?
Sono un sostenitore dell’idea che
esiste una pluralità di livelli a cui può essere studiata la mente, e che
questi livelli sono altrettanto solidi ontologicamente. Non sono riduzionista,
e non lo sono perché non lo è certamente la scienza attuale. Il livello eminentemente
personale (il «sé») e quello biologico non sono assimilabili, riducibili.
Viceversa, sono convinto che la prospettiva nella quale collocare questi
diversi aspetti debba essere quella di una interazione, di una cooperazione del
molteplice.
Siamo ad un cambio di passo della
filosofia?
La grande sfida è tenere nel
dovuto conto quello che oggi la scienza ci dice. Ignorarlo vorrebbe dire
commettere un errore altrettanto grave di quello dei riduzionisti. Le
neuroscienze rappresentano una grandissima rivoluzione che deve interessare i
filosofi e i teologi proprio perché, come la scienza al tempo di Galileo, ci
apre un nuovo universo di conoscenze. Lo stesso livello personale - l’io - di
cui lei parla nella sua domanda, da Freud in poi non è più così perfettamente
trasparente come si pensava, ma opaco. Questo è un dato acquisito che ha posto
sotto una luce nuova la nostra fallibilità. Non si può tornare indietro -
facendosi fautori, mettiamo, di un pieno autopossesso dell’io -, né nascondere
la testa sotto la sabbia. Le neuroscienze ci sono.
Torniamo al titolo: La natura
dell’uomo è rapporto con l’infinito. Ma questo rapporto è qualcosa di reale o
di illusorio? E se è reale, come si documenta?
È una domanda molto difficile. Se
vuole, il punto è: come fa una mente finita come la nostra, sorretta da un
cervello biologico, a pensare l’infinito? Quello che un filosofo può fare è
capire come la nostra mente può parlare, ragionare sull’infinito. Questo
avviene in molti modi, alcuni dei quali lontanissimi: la matematica e l’arte,
per esempio. Prendiamo il linguaggio, un «piccolo» caso di infinito in atto. La
ricorsività, la capacità del linguaggio di produrre sempre nuovi enunciati, di
parlare illimitatamente, attesta l’infinito. C’è da dire poi che il linguaggio
è inserito in una società che produce idee, concetti. I cervelli degli esseri
umani, insieme, producono un universo di conoscenza che va ben oltre le
capacità individuali, superando così il limite della contingenza biologica.
La fede cristiana dice che
quell’infinito che l’uomo scopre in sé, si è manifestato e ha accolto in sé,
nell’Incarnazione, il finito. Lei, da filosofo e da uomo, come accoglie questo
fatto?
Lo vedo come una opportunità che
tutti gli esseri umani, credenti e non credenti, hanno a disposizione per
chiarirsi queste grandi domande che si ripropongono costantemente. È difficile
poter pensare di fare l’autopsia a questo tipo di concetti. Da filosofo
analitico credo che il pensiero filosofico non possa arrivare a delle
conclusioni su questo tipo di tematica. Come uomo, credo che il rapporto tra
l’infinito e la nostra finitezza non possa essere evaso. A questo punto entra
però in gioco una visione che dev’essere sorretta dalla fede.
Entriamo cioè in un altro
territorio?
Sono due territori che
interagiscono, ma che sono distinti. Non ci vedo un conflitto, nel senso che le
persone sono tutte intere e che quei medesimi territori sono lo spazio nel
quale tutti noi ci troviamo a vivere. Il matematico può essere anche artista.
Se non lo è, l’uno deve però accettare l’altro.
(Federico Ferraù)
© Riproduzione riservata.
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