giovedì 30 agosto 2012


I farmaci equivalenti un tabù per i medici - GIORGIO FORESTI* - 30/8/2012 - http://www.lastampa.it/

Caro Direttore, qualunque lettore di giornali non può che concordare sul fatto che, dopo i temi estivi di rito, i farmaci equivalenti, o meglio le leggende metropolitane che li riguardano, sono stati un argomento frequentatissimo in queste settimane. E mi spiace dover constatare, a 11 anni dalla loro introduzione in Italia, che l’argomento scateni una ridda di osservazioni e interventi che purtroppo alimentano confusione anziché generare una corretta informazione. E questo si è ripetuto anche per le norme volte a favorire l’impiego dei generici contenute nella spending review.

E’ il caso, per esempio, delle dichiarazioni del dottor Marasso, presidente della Fimmg di Asti, intervenuto sulla «Stampa» del 21 agosto. La prima cosa che stupisce, nel suo intervento, è che si presenti come una complicazione eccessiva – e una lesione della libertà del medico – il fatto di chiedere l’indicazione del nome del principio attivo anziché quella del marchio commerciale. Nei Paesi industrializzati si fa quasi sempre così: basterebbe aver visto qualche puntata della serie ER per constatare che i medici parlano di azitromicina e non di «Zitromax». E se non ricordo male, nei testi di farmacologia si parla di principi attivi, non di marchi, quindi il medico dovrebbe conoscerli. Così come non mi sembra una vessazione chiedere di motivare la non sostituibilità in forma sintetica, soprattutto considerando che questa motivazione si richiede soltanto all’inizio di una nuova terapia, non per chi è già in trattamento.

Mi spiace poi che per contestare la pari efficacia dei generici (lo ha fatto anche Marasso, ma non è certo il solo) ricorra ad argomenti non superati, ma superatissimi. Come quello, per esempio, delle compresse che si rompono estraendole dal blister: questo era un problema, dovuto all’eccessivo spessore del foglio metallico che chiude il blister stesso, che ha riguardato, più di cinque anni fa, i medicinali di una singola azienda e non aveva nulla a che fare con il farmaco in sé. Se si dovesse revocare in dubbio la validità di un medicinale ogni volta che un’azienda farmaceutica – di generici o di griffati – deve ritirare un lotto di medicinali per difetti minori come questo, probabilmente dovremmo tornare a curarci con le radici raccolte nei boschi. Anche la questione della variazione all’interno della quale si parla di bioequivalenza, l’ormai famigerato più o meno 20% di biodisponibilità, è spesso assolutamente mal posta. In primo luogo il valore del 20% è uguale in tutto il mondo (non esistono Paesi europei in cui ci si basi sull’1-2%): sono passati i tempi in cui per avere notizie dall’estero si dovevano attendere i velieri in porto, basta usare Internet. Se questa tolleranza fosse eccessiva come si lascia intendere, resta da spiegare perché in Gran Bretagna, in Germania o in Francia – dove il generico è presente da decenni e con «numeri» ben più alti, i pazienti non paiono proprio soffrire di questa circostanza (si veda lo studio che l’Unione delle casse malattia francesi ha pubblicato paragonando direttamente pazienti trattati con statine di marca e generiche).

D’altronde sulla bioequivalenza le imprecisioni si sprecano. E a questo proposito vorrei consigliare alla dottoressa Paola Caracristini di andare a ripassare i testi di farmacologia, perché non può un farmacista affermare, come fa lei il 18 agosto, sempre sulla «Stampa», che un medicinale possa contenere il 20% in meno (o in più) di principio attivo: siamo alle barzellette che però non fanno ridere.

Infine, sarebbe il caso di valutare se tutte le difficoltà per il paziente che spesso si temono non siano dovute anche al fatto che molti cittadini il nome dei principi attivi, dal loro medico, non lo sentono mai fare. Magari, cominciando a scriverlo sulla ricetta, può darsi che questo benedetto nome entri nell’orecchio, come certe canzoncine estive…

In realtà, da cittadino, ho l’impressione che, anche su questo argomento, si ripercuota una caratteristica tutta italiana, cioè pensare che anche quando tutto il mondo affronta un problema in modo differente da noi… hanno torto gli altri. Per carità, può anche succedere, e l’innovazione nasce anche da questo atteggiamento, ma in questi ultimi tempi mi sembra che la diversità a tutti i costi sia stata uno svantaggio, e non un vantaggio, per il Paese.

*Presidente AssoGenerici

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