La grave sentenza di Strasburgo - Mors tua salus mea? - Roberto Colombo,
30 agosto 2012, http://www.avvenire.it
Una sentenza provvisoria, quella
della Corte di Strasburgo sull’ammissibilità della selezione eugenetica degli
embrioni umani mediante diagnosi preimpianto, ma comunque destinata a lasciare
un segno scuro nella giurisprudenza europea. Conferma, infatti, che non pochi
giuristi si sono orientati a imboccare la china dei "passi indietro"
nella storia del riconoscimento, della tutela e della promozione dei diritti di
ciascun uomo e di tutti gli abitanti del Vecchio Continente. Non solo per gli
aspetti su cui hanno già disquisito diversi commentatori: la denuncia della (presunta)
incongruenza tra due leggi dell’Italia, uno dei 47 Stati membri del Consiglio
d’Europa (e dunque firmatari della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali), che riguardano la vita umana
prenatale; le ripercussioni che il pronunciamento potrebbe avere, se
confermato, sulla normativa italiana e di altri Paesi dell’Unione; e la
contraddizione di principio giuridico tra questo giudizio e quello espresso lo
scorso anno dalla Corte di Giustizia europea sulla non brevettabilità
dell’embrione umano. Aspetti rilevanti, sui quali è giusto riflettere
giuridicamente e politicamente. Ma ce n’è ancora un altro, dagli effetti
dirompenti eppure quasi inosservato.
La sentenza ha sancito - di
fatto, anche se non di principio esplicito - che il perseguimento della salute
di un uomo o di una donna non ancora nati può giustificare la distruzione della
vita di altri uomini e donne, anch’essi nella vita prenatale, ma malati o che
potrebbero diventare tali. Le sentenze sull’aborto non si erano mai spinte fino
a questo punto: alcune erano giunte ad ammettere la insindacabile prevalenza, a
loro dire, della salute della donna sulla vita del concepito, malato o anche
sano; altre, quella dei cosiddetti "interessi" della famiglia e della
società rispetto alla nascita di bambini affetti da patologie congenite, tali
da autorizzare la loro soppressione in utero.
Infine, con l’aborto selettivo
(la "riduzione" del numero dei feti nelle gravidanze plurigemine
attraverso l’eliminazione di uno o più di essi), si è voluta privilegiare la
salute di uno o più feti sani e della donna a scapito della vita di altri feti,
anch’essi sani, il cui sviluppo contemporaneo avrebbe potuto compromettere la
salute dei primi. In un certo numero di Paesi extraeuropei si è arrivati a
tollerare anche la soppressione di un concepito femmina (per quanto sano) a
favore della nascita di figli maschi.
I giudici di primo livello a
Strasburgo non si sono fermati qui (e siamo già ben oltre ogni limite di
civiltà). Hanno abbracciato la tesi inaudita che la salute di un fratello o di
una sorella vale la morte di un altro fratello o sorella, coetanei (stessi
primi giorni di vita), con la sola "colpa" di essere affetti da
anomalie genetiche legate allo sviluppo di alcune malattie.
E così dalla locuzione «mors tua
vita mea» – vertice dell’egoismo umano – si arriva all’ancor più abominevole
sentenza «mors tua salus mea», senza neppure passare per una, sia pur indebita,
applicazione del cosiddetto "principio terapeutico". La morte degli
embrioni malati non è neppure lo strumento operativo per recuperare la salute
di un altro embrione o bambino malato attraverso un processo terapeutico, ma
solo una condizione "a priori" (e, come tale, dovrebbe essere
sostenuta da robuste ragioni teoretiche e pratiche, e non semplicemente
affermata) per non accogliere e promuovere la vita di un figlio che potrebbe
risultare segnata dalla malattia, decidendo i genitori – sempre
aprioristicamente – di consentire lo sviluppo esclusivamente a un figlio dichiarato
sano, addirittura non ancora impiantato in utero (e, in alcuni casi, neppure
concepito) in quel momento.
Nella "civiltà della
salute" europea sembra aprirsi l’inquietante scenario di una
discriminazione – non strumentale alla guarigione ma precondizionale
all’assenza di malattia – tra soggetti di pari razza, età, sesso, grado e luogo
di sviluppo, figli dello stesso uomo e della stessa donna, che non possiamo non
definire una nuova versione di autentica eugenetica negativa (con buona pace di
coloro che insorgono di fronte a questo appellativo), che si consuma nei
laboratori di una clinica per la procreazione medicalmente assistita.
Nel nostro continente, come in
altri, si è molto - troppo - discusso sull’ambizione di una eugenetica
positiva, a partire dalle possibilità della clonazione e dell’ingegneria
genetica, e troppo poco sulla tentazione di un ritorno all’eugenetica negativa,
questa volta non con il volto truce dello sterminio di massa, ma con le
parvenze ammalianti della biotecnologia riproduttiva individuale. Faremmo bene
a riflettere su quale strada si sono incamminati i diritti umani di tutti e di
ciascuno, a partire da quello fondamentale e inalienabile alla vita che, a
rigore di ragione e di esperienza elementare dell’uomo, precede e rende
possibile ogni altro diritto, anche quello alla salute.
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