La strage di Oslo e il suo autore - Quel male che nasce dal dimenticare
chi siamo di Costantino Esposito, 30 agosto 2012, http://www.avvenire.it
Com’è facile, di fronte a eventi
terrificanti, come la strage compiuta un anno fa sull’isola norvegese di Utoya
da un fanatico ultranazionalista, Anders Behring Breivik, in cui persero la
vita 68 giovani partecipanti ad un campo estivo dei 'laburisti' (e altre nove
erano state le vittime di un’esplosione sempre progettata dallo stesso Breivik
nel centro di Oslo), archiviare il caso come un atto di assurda violenza,
nutrito nel torbido terreno dell’odio xenofobo e razzista.
Tutto questo è vero, senz’altro. E
la condanna inferta all’assassino – 21 anni, il massimo previsto dalla
legislazione norvegese – sembra quasi un argine inadeguato contro il terribile
sguardo del reo confesso, tutto fiero beffardamente della sua azione, pentito
solo di non averne potuto uccidere di più, dei suoi giovani "nemici",
come egli stesso ha dichiarato dopo la lettura della sentenza. Ma anche una
risposta del tutto insufficiente (e questo a prescindere dal numero di anni di
prigionia) all’attesa di giustizia che un tale evento provoca inevitabilmente
in noi.
Si tratta di un’azione in qualche
modo non risarcibile, e la giusta pena non colma la misura abissale della
distruzione di quelle vite. In altri Stati la condanna sarebbe stata certamente
molto più pesante, e coloro che considerano la leggerezza del castigo una
misura del tutto inadeguata rispetto all’enormità del delitto (come una crepa
evidente nelle legislazioni occidentali più liberal rispetto alle sfide delle
società multiculturali e multietniche) si opporranno senz’altro a coloro che
invece plaudono alla saldezza di una giurisprudenza che riesce a contenere,
senza demonizzare indebitamente, anche i delitti più eclatanti, mettendo al
centro la possibilità e anzi il diritto dei colpevoli ad una rieducazione
sociale.
Ma in entrambi i casi questa
condanna non può esimerci dal guardare in faccia il male che un uomo –
riconosciuto peraltro dal Tribunale "sano di mente" – è capace di
fare. Questa parola, "il male", ci inquieta profondamente: e difatti
tutti noi cerchiamo di sbarazzarcene subito o addossandolo interamente sul
funzionamento psicologico dell’assassino, e vederlo così, a distanza, come una
possibilità orrenda – un difetto neurologico, insomma – che non potrà mai
essere nostra; oppure pensando che essa è solo il frutto di un contesto sociale
inadeguato, esso sì veramente colpevole di aver permesso e sviluppato
un’ideologia cha avrebbe armato la mano del colpevole.
Eppure il male è un punto non
risolto nella nostra esperienza: una possibilità drammatica che affonda nelle
pieghe della nostra individualità personale (personale: cioè dotata di ragione
e libertà), e che con altrettanta evidenza tutti noi condividiamo. Noi non
siamo come l’assassino Breivik, grazie a Dio; e tuttavia bisogna pur dire che
alla radice del gesto inconcepibile di quest’uomo si rende manifesta una
tendenza o almeno una possibilità che in qualche maniera – ecco l’inquietante,
ecco l’inaudito – ci appartiene.
Guardare in faccia questo male,
accettare di non censurarlo o nasconderlo, può significare però due cose
diverse per noi. O arrendersi al fatto che in definitiva la libertà umana non
possa sottrarsi a un destino irrazionale, rimanendo prigioniera della sua
stessa volontà di potenza e di distruzione; oppure percepire tutto lo stridore
e la contraddizione che il male provoca in noi, rispetto a ciò che desideriamo
per noi stessi.
Percepire questa contraddizione
tra la nostra capacità di fare il male, cioè di distruggere noi stessi e il
mondo attorno a noi, e il nostro desiderio di "essere" positivamente
noi stessi è forse una delle esperienze più interessanti e decisive del nostro
"io", e noi ce ne accorgiamo soprattutto quando proviamo rimorso o
pentimento. Ma questo può succedere proprio perché è presente in noi, come una
traccia indelebile, l’evidenza di un bene che viene prima del male, e che ci fa
giudicare – dentro il male che possiamo fare – che siamo fatti invece per il
bene e che siamo noi stessi un "bene", come si può vedere in maniera
affascinante in alcuni personaggi dei romanzi di Dostoevskij.
È come una "fattezza"
originaria che si rende trasparente nell’esperienza del male: siamo fatti
bisognosi di tutto: ma non è un bisogno sinonimo di impotenza, bensì indice del
nostro rapporto con un’alterità senza di cui non saremmo davvero liberi. E
difatti anche il 'peccato originale' è tale perché all’origine dell’uomo c’è il
rapporto buono con il suo creatore e la sua libertà è chiamata sempre a
scegliere se seguirlo o disfarlo. È forse qui il più acuto dramma di Anders
Breivik, quello di non sentirsi bisognoso di nient’altro da se stesso e pensare
di poter e dover essere il padrone di sé e del mondo. Ma è proprio quello che
il suo gesto assurdo e malvagio ci chiede di riconoscere ancora una volta.
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