Vita - L'INTERVISTA - Eusebi:
«Programmare vite di riserva, la disumanità che abbiamo fermato» di Viviana
Daloiso, 30 agosto 2012, http://www.avvenire.it
C’è un problema di fondo, nella
sentenza di Strasburgo. Un’incoerenza – questa sì – con i principi cardine
dell’ordinamento costituzionale che non sfugge a Luciano Eusebi, ordinario di
diritto penale nell’Università Cattolica del Sacro Cuore e membro della
Commissione chiamata a preparare le Linee guida della legge 40 emanate nel 2004
dall’allora ministro Sirchia.
Professore, a cosa si riferisce?
Si sente spesso dire che il
ricorso alla diagnosi pre-impianto sia finalizzato a non trasmettere ai figli
malattie, e in sé questo fine è più che comprensibile. Il problema, però, è che
con questa tecnica il fattore genetico da cui la malattia dipende viene pur
sempre trasmesso e gli embrioni a cui viene trasmesso vengono selezionati.
Questo cosa significa?
Che nel ricorso alla diagnosi
pre-impianto si prevede a priori la generazione di vite umane (e tra queste di
vite umane malate) cui verrà negato il diritto all’esistenza. La logica della
selezione prevale su quella della cura: secondo una ben nota espressione di
Jürgen Habermas, si generano embrioni “con riserva”, cioè embrioni dei quali si
sa che in gran parte verranno selezionati in quanto portatori di un fattore
genetico negativo. Ora, tutti vorremmo non trasferire fattori di questo tipo ai
nostri figli, ma dobbiamo chiederci: davvero la strada giusta è quella di
agire, mediante la selezione, su vite già iniziate?
Questo partendo dal presupposto
che gli embrioni sono vite...
Una certezza, non un presupposto.
La vita sussiste da quando è in atto una sequenza esistenziale che procede
senza bisogno di ulteriori impulsi esterni, come per esempio ha nitidamente
rimarcato, riconducendo il sussistere dell’embrione al momento fecondativo, la
sentenza 18-10-2011 della Corte di Giustizia dell’Unione europea.
Non solo la sentenza di
Strasburgo avvalla la pratica della diagnosi pre-impianto, ma critica la
legislazione italiana rilevando una «incongruenza» tra la legge 194 sull’aborto
e la 40 sulla fecondazione assistita. Che idea si è fatto di questi rilievo?
In realtà il passaggio
argomentativo fondamentale della sentenza – la quale motiva in rapporto
all’asserita praticabilità dell’aborto su feti portatori di gravi anomalie –
trascura il fatto che la legge n. 194/1978 non consente in alcun modo
l’interruzione volontaria della gravidanza per il solo sussistere di una
patologia del concepito, ma richiede a quel fine il sussistere di un pericolo,
serio o grave, per la salute fisica o psichica della donna. La pura
discrezionalità dell’aborto o il venir meno della tutela della vita umana
(ancorché prima della nascita) per considerazioni relative allo stato di salute
di quest’ultima sono state sempre ritenuti inaccettabili dalla giurisprudenza
costituzionale italiana.
Secondo la nostra legislazione,
insomma, la malattia in se stessa non fa decadere il diritto fondamentale alla
vita del concepito.
Esatto. Con la diagnosi
pre-impianto, d’altra parte, non ci si ritrova – malauguratamente – in presenza
di una malattia, ma si mette in conto la generazione di vite umane portatrici
di patologie. E la programmata selezione di vite umane sulla base di riscontri
genetici resta pur sempre, quale sia la loro natura, “eugenetica”.
La legge 40 è di nuovo sotto
attacco. È una norma “scomoda” per molti, anche fuori dall’Italia. Perché?
Con questa legge il nostro Paese
ha fatto una scelta importante: quella di privilegiare il livello qualitativo
della fecondazione assistita. Si è cercato, cioè, di ottenere un’alta qualità
nelle tecniche evitando una produzione incontrollata di embrioni: così da
permettere a tutti gli embrioni in gioco di avere una chance di sviluppo e così
da escludere, inoltre, forme pericolose per la donna di iperstimolazione
ovarica. La legge ha favorito altresì la consapevolezza relativa al problema
concernente i criteri umanamente accettabili della generazione umana:
riflessione che non dipende affatto da considerazioni di carattere
confessionale. Sarebbe accettabile, per esempio, una totale sostituzione
tecnica della gravidanza, e dunque del ruolo, in essa, della donna? O una
generazione senza l’apporto genetico di due individui di sesso diverso? O il
coinvolgimento di gameti al di fuori di qualsiasi relazionalità tra i soggetti
generanti. O, per l’appunto, l’apertura alla logica selettiva? Sono temi di
grande spessore, sui quali è necessario che la nostra società torni a discutere
con pacatezza.
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