PAROLE: EUTANASIA \2 - Cosa si intende quando si parla di “eutanasia”?
Ha ragione Beppino Englaro (la cui intervista su Il Venerdì di Repubblica del
27/7/2012 abbiamo iniziato a commentare nel precedente post), quando sostiene
che l’uccisione della figlia Eluana, con l’eutanasia “non c’entra un fico
secco”? MERCOLEDÌ 1 AGOSTO 2012, Giacomo Rocchi, http://veritaevita.blogspot.it
Proviamo a fare un elenco dei
casi che, in qualche modo, hanno a che fare con l’eutanasia: quella eugenetica
messa in atto dal regime nazista (e non solo da quello), l’uccisione per pietà
dei malati sofferenti o l’aiuto prestato al loro suicidio, il diritto al
suicidio per i sani, il trattamento dei malati terminali e il divieto di
accanimento terapeutico, la mancata rianimazione dei neonati estremamente
prematuri, l’omissione di terapie e di sostegno vitale ai disabili fisici o a
quelli psichici (compresi quelli nel cosiddetto “stato vegetativo”), il rifiuto
delle terapie e/o del sostegno vitale da parte dei pazienti o dei sani, la
facoltà per i tutori e i genitori di impedire terapie per gli interdetti e i
figli minori, il testamento biologico, le dichiarazioni anticipate di
trattamento.
Beppino Englaro chiarisce, in
altri passaggi dell’intervista, quali sono i tratti distintivi della sua
vicenda, quelli che la renderebbero diversa da un caso di eutanasia: la
sentenza della Cassazione “ci ha dato il diritto a dire no alle cure”; egli
aveva vissuto la “tragedia della responsabilità. Quali scelte fare e quali no
in una situazione limite”; ma “noi genitori non avevamo dubbi sulla decisione
di rifiutare le cure”. Il motivo per cui non vi sono stati altri “casi
Englaro”? “Perché occorreva, per sentenza, che ci fosse una condizione
irreversibile e la certezza della volontà del paziente. Quanti giovani si sono
espressi sul rifiuto delle cure? Lei, però, l’aveva fatto”. Secondo Beppino
Englaro, infatti, “Eluana, che era forte e intelligente, pur essendo credente,
metteva al centro non la sacralità, ma i diritti umani di libertà, di
responsabilità e di scelta”.
La parola d’ordine, quindi, è:
diritto di rifiutare le cure mediche, libertà di questo rifiuto; questo è il
risultato “giusto” che si ha quando “diritto e medicina si incontrano” ;
Englaro sostiene di avere voluto questo incontro fin dal 1992, anno
dell’incidente della figlia.
Se rileggiamo l’elenco fatto
all’inizio, quindi, possiamo intuire quali siano le pratiche che Beppino
Englaro qualifica come eutanasia, “che è un reato”: quella eugenetica,
ovviamente; ancora, l’uccisione diretta dei pazienti (il rifiuto delle cure può
portare soltanto ad ometterle, non può portare ad azioni specificamente volte
alla morte del paziente); poi la sospensione delle cure e delle terapie nei
confronti di soggetti che non l’hanno chiesto; infine – parrebbe di capire –
l’aiuto al suicidio o l’omicidio di chi l’ha chiesto per ragioni di carattere non
medico.
La “memoria di Eluana” – ora che
è stata uccisa, è memoria di tutti, e non solo del padre – impone di scavare
più a fondo, di non fermarsi alle parole d’ordine di chi ha avuto ragione in un
giudizio privo di un effettivo contraddittorio (il curatore speciale nominato
proprio per garantirlo, si associò alla richiesta del tutore di far morire la
figlia fin dalla prima udienza) e di sottolineare qualche punto che Beppino
Englaro lascia cadere nell’intervista: l’uso dell’espressione “cure”, per ricomprendere
acqua e cibo nelle “terapie”, così da presentare il rifiuto opposto dal tutore
come attinente al campo medico; ma anche la duplicazione dei soggetti che
avrebbero deciso (la figlia che “si era espressa sul rifiuto delle cure” o i
genitori, che si sono assunti la “responsabilità di prendere la decisione di
rifiutare le cure”?); e, soprattutto, la qualificazione della condizione di
Eluana Englaro dopo l’incidente come “situazione limite”, “zona di confine tra
vita e morte”. Sappiamo bene che, fin dal 1992, Beppino Englaro riteneva la
figlia “morta” (“Ogni giorno, da quasi diciassette anni, facciamo visita alla
sua tomba: nostra figlia è morta il giorno dell’incidente; non sarà la
sepoltura del suo corpo a dirci che lei non c’è più”, La Stampa, 14 novembre
2008).
L’analisi del caso Englaro
permette, non a caso, di giungere a conclusioni che toccano proprio questi
punti: i Giudici autorizzarono Beppino Englaro a decidere, ritenendo
irrilevante la volontà manifestata da Eluana Englaro; la decisione non aveva
affatto a che fare con il rifiuto di terapie ma riguardava direttamente
l’uccisione della disabile; la decisione venne affidata a chi esplicitamente
sosteneva che la condizione in cui l’interdetta si trovava – lo stato
vegetativo persistente – non era degna di essere chiamata vita, tanto da
ritenere del tutto inutile qualunque cura o terapia.
Quindi: decisione di vita o di
morte lasciata a soggetto diverso dall’interessato, adottata per motivi
riguardanti le condizioni fisiche e psichiche della vittima. “Libertà di vivere
o di morire” affidata ad altri e ai loro criteri di “dignità della vita”.
Non è che, l’essenza
dell’eutanasia è (quasi) sempre questa?
Cercheremo di vederlo.
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