giovedì 26 aprile 2012


Eutanasia infantile, si può parlare di dignità? di Giovanna Arcuri, 26-04-2012, http://www.labussolaquotidiana.it/

E’ di qualche tempo fa l’accesissimo dibattito intorno ad un articolo dei ricercatori Alberto Giubilini e Francesca Minerva, pubblicato sul Journal of Medical Ethics dal titolo Aborto post-natale: perché il neonato dovrebbe vivere?. Nell’articolo si sostiene che l’uccisione del neonato è lecita quando questi versa in uno stato di salute assai compromesso. In buona sostanza si tratta di infanticidio.

Ciò che gli autori di questo saggio ipotizzano è in verità già prassi consolidata in Olanda. Solo che lì la chiamano eutanasia infantile. E’ questione di prospettive: l’uccisione del bebè può essere interpretata come aborto tardivo o eutanasia precoce. Cambia il nome dell’omicidio ma sempre omicidio è.

Dicevamo che in Olanda questo tipo di pratica è ormai ben avviata (strano destino per un paese che unico non aderì al programma di eutanasia forzata imposta dal nazismo). L’infanticidio è infatti praticabile nel rispetto di alcune condizioni previste dal Protocollo Groningen del 2003: “Povera qualità della vita [tra cui la presenza di dolore fisico o psichico] – Mancanza di autosufficienza – Mancanza di capacità di comunicazione – Dipendenza ospedaliera – Aspettativa di vita”. Condizioni abbastanza diffuse se Eduard Verhagen, l’autore del suddetto protocollo, ammette dalle colonne del New England Journal of Medicine del 10 Marzo 2005 che su 1.000 bambini che muoiono nel loro primo anno di vita, 600 smettono di vivere per una pratica eutanasica. Insomma il 60%. Percentuale che potrebbe far stupire solo gli stolti: infatti quale è quel neonato, seppur sanissimo, che è autosufficiente, che non necessità di assistenza medica, che comunica come un adulto? Nessuno.

Il protocollo sin da subito fu oggetto di severe critiche non solo da occhiuti moralisti cattolici ma soprattutto da colleghi del dott. Verhagen. Ad esempio Hilde Lindemann e Marian Verkerk, benché approvassero nella sostanza le tesi del protocollo, nell’articolo scientifico Ending the Life of a Newborn: The Groningen Protocol (in The Hastings Center Report, 2008) appuntarono il fatto che stando ai criteri del protocollo era ben difficile discernere tra bambini con scarse possibilità di sopravvivenza da quelli con buone probabilità di farcela. Anzi affermavano che, a leggere con attenzione il protocollo, nell’insieme di coloro che sono destinati già alla tomba il dott. Verhagen include, nel rispetto dei parametri appena visti, i piccoli affetti da patologie di paralisi progressiva, quelli che per tutta la vita dovranno dipendere da altre persone o da macchinari, coloro che sono afflitti da un’incapacità permanente di comunicazione e quelli che ora stanno bene ma un giorno – chissà – magari soffriranno. Insomma non certo bambini moribondi. Tant’è che i due ricercatori, seppur filo-Verhagen, così chiosano: “Ricomprendendo [il dott. Verhagen] nel suo alveo i bambini che non sono in pericolo di morte e che con le cure adeguate potrebbero diventare adulti, il Protocollo si rivela ancora più radicale di quanto i suoi oppositori non avessero immaginato". Ovviamente va da sé che a rigor di logica nelle condizioni disegnate dal protocollo entrano a pieno diritto anche molti adulti: che siano dunque anche loro sottoposti ad eutanasia affinchè non soffrano più.

Riserve ancor più cocenti vengono poi dal neurochirurgo pediatrico Rod de Jong dell'ospedale Erasmo di Rotterdam il quale ha seguito per 5 anni 28 bambini affetti da spina bifida, soggetti che difficilmente potrebbero sopravvivere al filtro delle dolce morte del dott. Verhagen (ed infatti 22 neonati affetti da questa patologia sono stati uccisi tra il 1997 e il 2004 in Olanda). In uno studio pubblicato  sulla rivista scientifica Pedriatics il dottor de Jong ci informa che innanzitutto non è vero che chi è afflitto da questa patologia soffra in modo indicibile: solo il 3,3% dei casi infatti accusava simili dolori. E anche in questi casi - secondo aspetto importante - attraverso cure appropriate il dolore scompariva del tutto o era sopportabile. Ovviamente de Jong si è premurato di aggiungere che questo tipo di dolore è presente anche in altre patologie pediatriche e analogamente può essere efficacemente combattuto. Conclusione da parte del dott. de Jong: se il dolore insopportabile è uno di quei indici che fanno finire i neonati nella lista nera redatta dal protocollo Groningen, la possibilità di eliminarlo con paracetamolo o morfina dovrebbe escludere questi piccoli dall’essere candidati inconsapevoli di pratiche eutanasiche. La replica del dott. Verhagen non si è fatta attendere: “La sofferenza insopportabile va molto al di là del dolore. Stiamo parlando delle aspettative sul futuro di questi piccoli bimbi”. Per dirla in breve: è sempre il dott. Veraghen l’unico depositario dei criteri per comprendere quando una vita è degna di essere vissuta. Che la comunità scientifica si adegui.

Negli anni il numero di neonati che non sono riusciti a sfuggire alla falce del protocollo superano di certo la decina di migliaia. Un nuovo olocausto. Il termine non è fuori luogo perché gli storici ci ricordano che la soluzione finale nazista non è iniziata con gli ebrei, bensì con gli handicappati e i malati di mente. Un olocausto silenzioso dato che secondo uno studio del Journal of Medical Ethics, il 59% dei casi di eutanasia in Olanda non è segnalato dagli ospedali. Un olocausto che trova compiacenti i medici: Il 31% dei pediatri olandesi avrebbe praticato almeno una volta l’eutanasia e nel 20% dei casi senza nemmeno il consenso dei genitori. Il 60% dei medici si è detto “onorato” di poter “porre fine alla vita di un bambino sofferente”.

Il dott. Verhagen da par suo ammanta il tutto poi di un pietismo e un umanitarismo da brivido: “E’ dopo che sono morti che li vedi rilassarsi per la prima volta”. Gli fa eco il professor John Griffiths, docente di sociologia proprio a Groningen: “Vengono salvati troppi bambini. Gli olandesi sono molto sensibili all’idea di una morte dignitosa. C’è un elemento estetico in tutto questo”. Il famigerato bioeticista Peter Singer dalle colonne del Los Angels Times di qualche anno fa propose poi “un periodo di ventotto giorni dopo la nascita prima che un infante possa essere accettato con gli stessi diritti degli altri”.Viene da chiedersi il perché questi signori non diano mai loro per primi un esempio della bontà e della bellezza di queste loro tesi.

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